Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera:
Alaimo di
Lentini, (nato circa nel 1245 e morto il 2 giugno
del 1287) nobile, fu Signore di Lentini e Messina, Gran
Giustiziere, Capitano del Popolo ed uno dei principali
organizzatori del Vespro siciliano. Alaimo di Lentini,
di parte guelfa fu esiliato durante il regno di Manfredi
di Sicilia. Dalla fine dello svevo con la sconfitta
nella Battaglia di Benevento (1266) poté ritornare in
Sicilia grazie a Carlo I d'Angiò. Gli angioini appena
insediatisi nominarono Alaimo Gran Giustiziere del Regno
e Segreto di Sicilia concedendo inoltre una serie di
privilegi. Tuttavia nel 1275 cambiarono gli equilibri ed
il Re Carlo tolse tutti gli incarichi ed i privilegi ad
Alaimo. Caduto in disgrazia nel 1282 fu uno dei maggiori
signori che fomentarono la rivolta antiangioina del
Vespro insieme a Gualtiero di Caltagirone, Palmiero
Abate, Enrico Ventimiglia e Giovanni da Procida.
Nell'agosto del 1282 si insediò a Messina, dove venne
eletto come «Capitano del popolo della Repubblica». La
citta dello Stretto era allora assediata da truppe miste
di guelfi-fiorentini e angioini-francesi. A Messina
proprio il 6 agosto bloccò e respinse l'assedio al porto
con una guarnigione di soli 100 soldati [1]. Venne
nominato da Pietro III d'Aragona Gran Giustiziere a vita
con diploma del 21 ottobre 1282. Nel corso delle
tensioni successive fra i signori siciliani e gli
aragonesi cercò di trovare una posizione di mediazione.
Fu Alaimo che con la propria diplomazione convinse
Gualtiero di Caltagirone asseragliatosi a Butera a
deporre pacificamente le armi a fine 1282. Fu sempre lui
a convincere Gualtiero asseragliatosi nuovamente a
Butera nel corso di aprile 1283 ad arrendersi una
seconda volta, stavolta però arrestandolo e
condannandolo alla pena capitale. Probabilmente Alaimo
cadde in disgrazia quando concesse la grazia a Carlo lo
Zoppo, figlio di Carlo I d' Angiò, che era stato
catturato nella Seconda battaglia di Castellammare
(1284). Giacomo II d'Aragona, adirato dalla mancata
esecuzione dell'angioini avrebbe punito Alaimo per
tradimento, destituendolo dalle cariche pubbliche . Il
19 novembre 1284 fu convocato a Barcellona dove venne
trattenuto sino al 2 giugno del 1287, quando con la
scusa di un permesso per ritornare in Sicilia, venne
giustiziato in viaggio sulla nave insieme ad alcuni
familiari.
Il Conte Alaimo - Storia di un condottiero siciliano
A cura del
prof. Filadelfo Favara
Tramontata la
potenza degli Svevi con la sconfitta e la morte di
Manfredi, nella battaglia di Benevento (1266), e il
fallito tentativo di Corradino, giustiziato a
Napoli ( 1268), calava, sul Meridione d'Italia e
sulla Sicilia, la dominazione francese.
Il vincitore, Carlo
d'Angiò, disceso in Italia su invito del Papa
Clemente V, che continuava la politica anti-sveva
dei suoi predecessori, organizzò il Regno, da poco
conquistato, ispirandosi a criteri di pratica
utilità e di cinico realismo.
Cominciò, così, per
la Sicilia la “ mala signoria “, come fu definita da
Dante (Paradiso, canto VIII, v. 73), che doveva
essere la causa dell'insurrezione del Vespro.
Infatti, Carlo, non
avendo alcuna considerazione per la civiltà la
tradizione, le esigenze del popolo siciliano, non
rispettò l'ordinamento politico, sociale ed
economico dell'Isola e instaurò nel Regno
l'antiquato sistema feudale francese. Impose al
popolo soggetto una classe dirigente estranea ed
avida, un esercito di vassalli, familiari, ufficiali
regi, a cui si era legato con promesse all'inizio
dell'impresa, col compito di esercitare un sordido
fiscalismo e con la licenza di trarre i massimi
vantaggi.
Trasferì, inoltre,
la capitale da Palermo a Napoli, umiliando
l'orgoglio dei Siciliani e, in particolar modo,
della classe aristocratica.
Allorché le
vessazioni e le esazioni divennero insostenibili (a
causa della spedizione contro l'Impero d'Oriente,
che il re preparava), scoppiò la rivolta del Vespro
che vide accomunati la nobiltà, spogliata di
privilegi e di terre, e il popolo, vittima di
violenze e soprusi.
L'insurrezione
dilagò in tutta l'Isola: ultima città ad aderirvi fu
Messina, sede del Vicariato di Carlo ed unica a
godere di certe franchigie.
Essa, però, “
tamquam portus et porta Siciliae “ (Saba Malaspina),
doveva sostenere l'assedio degli Angioini e pagare
un notevole tributo di sacrifici e di sangue.
Nella difesa della
città, rifulsero le qualità del condottiero, l'amore
della libertà e la salda coscienza morale di Alaimo
da Lentini.
Molto viva è la
presentazione che, nella sua prosa colorita, ma
efficace, fa di lui Michele Amari, lo storico della
guerra del Vespro, di cui ci piace riportare qui
alcuni brani.
In seguito alla
sconfitta subita dai Messinesi a Milazzo, sorsero
nella città dei tumulti, nei quali il popolo,
deposto l'inesperto capitano Baldovino Mussone, “ a
una voce, persuadendolo forse i più savi, gridò
capitano Alaimo da Lentini, nobile di sangue,
vecchio robusto e animoso, espertissimo in guerra.
Fu somma ventura di Messina e di tutta l'Isola.
Egli, preso appena
il comando, ordinò con più alto argomento la difesa
della città; riparò, sopravvide, indefesso addestrò
il popolo alle armi”.
Poi venne
l'attacco.
Il 6 agosto 1282,
Alaimo respinse il furibondo assalto dei francesi
contro il Monastero del Salvatore, posizione chiave
dell'assedio, perché sito all'ingresso del porto.
Le truppe angioine
rinnovarono l'irruzione il giorno 8, investendo il
monte della Capperina, che, sovrastando la città da
sud-ovest, era stato fortificato di steccato e fosso
e munito di arcieri.
I nemici stavano
già guadagnando l'altezza, quando Alaimo, conscio
della gravità del pericolo, accorse trascinando il
popolo alla lotta e vittoriosamente ricacciò gli
invasori che avevano raggiunto il ridotto.
Essendo i cittadini
decisi a resistere, venne a Messina il legato
pontificio, Cardinale Gherardo da Parma, il quale fu
accolto con tutti gli onori e ricevette in
cattedrale le chiavi della città e il bastone del
comando da parte del capitano del popolo.
Era desiderio di
Messina affidarsi al presule della Chiesa, ma il
legato, in conformità alla sua missione, disse di
volere riconciliare e consegnare la città al re, il
quale avrebbe usato clemenza verso i rivoltosi.
Narra Michele Amari
che a quelle parole Alaimo : “ A Carlo no -
proruppe con voce di tuono e gli strappava il
bastone del comando - no, Padre, vaneggi : i
francesi mai più finché sangue e spade avremo noi !
“.
Sorse un grande
clamore e i tentativi “onesti e franchi” della
mediazione caddero a vuoto.
Inutilmente la
rabbia nemica si scatenò contro la cittò: tutti gli
assalti furono respinti, quello del 15 agosto alla
Capperina, quello del 2 settembre alle mura
settentrionali, quello “generale ed estremo”del 14
settembre.
In tutti questi
scontri domina la figura di Alaimo che “sfavillante
in volto, corre per ogni luogo: agli steccati, agli
spalti, ov’è maggior l'uopo, ove più aspro il
pericolo; sopravvede i movimenti del nemico, regge
tutta la difesa, rifornisce gli stanchi coi freschi
guerrieri, supplisce le armi, esorta e combatte.
Con esso i
condottieri, i cittadini di maggior nome, adopran
tutti secondo la prova estrema e disperata; in tutto
il popolo è una virtù - Viva Messina e libertà- e
torna la lena ai petti e s'addoppia il vigore alle
braccia e non è chi curi di ferite e di morte”.
Infine, re Carlo,
vista l'inutilità della lotta, tentò di corrompere
l'animo di Alaimo : venivano offerti il perdono alla
città al valoroso difensore 10.000 once d'oro, una
rendita annua di 200 once, onori e dignità, in
cambio della resa.
Alaimo rispose che
mai avrebbe tradito i suoi fratelli e i suoi figli e
che la sua più alta aspirazione era la libertà della
patria, per la quale era pronto a sacrificare anche
la vita.
Il 24 settembre fu
occupato dai francesi il palazzo dell'Arcivescovado,
nei pressi delle mura.
Nella notte i
soldati di Alaimo assalirono l'edificio e uccisero i
nemici, mentre schiere di messinesi, in una sortita,
recavano scompiglio nel campo angioino.
Scoraggiato dagli
insuccessi e temendo l'arrivo di Pietro d'Aragona e
delle sue truppe, il 26 settembre Carlo d' Angiò
tolse l'assedio alla città
Poche e
frammentarie sono le notizie ( che le fonti ci
offrono ) relative all'arco dell'esistenza di Alaimo,
precedente gli avvenimenti di Messina.
Non conosciamo
l'anno di nascita, ma sappiamo che il termine
“Lentini ", aggiunto al nome di battesimo, si
riferisce al luogo d'origine e non alla famiglia,
come dimostra Pisano Baudo nella Storia di Lentini,
p. 151, nota 3, con il confronto dei diversi stemmi
e la storia della famiglia lentinese di Alaimo.
Nobile di nascita,
forse congiunto dei S. Basilio di Lentini, fu di
parte guelfa e perciò esiliato da Manfredi.
Ritornò in Sicilia dopo
la battaglia di Benevento, divenne consigliere e
familiare di Carlo d' Angiò e ottenne da lui ( con
diploma del 22 agosto 1274) la carica di
Giustiziere, prima nel Principato e nella terra di
Benevento, poi in Sicilia. Nell'ordinamento
giuridico del Regno, il giustiziere “rappresentava
l'autorità regia, invigilava l'ordine pubblico,
giudicava le cause penali e in appello le civili,
affidate in prima istanza ai giudici delle terre o
università, e curava l'esazione dell'imposta
fondiaria “ .
Alaimo esercitò tale
ufficio fino al 1278; nel 1279 assunse con altri la
screzia di Sicilia e nel 1282 divenne Stradigota di
Messina. Sinceramente amante del
suo popolo e della sua terra e vivamente addolorato
per le condizioni in cui versava la Sicilia,
cominciò ad allontanarsi in cuor suo dagli Angioini
e dalla loro politica.
Il Pisano Baudo ci
parla di un viaggio di Alaimo a Napoli, intrapreso
nel tentativo di fare alleviare le sofferenze degli
isolani. Ricevuto dalla regina,
sarebbe stato trattato con ostilità, per cui ritornò
in patria amareggiato e convinto che nessuna
concessione si sarebbe potuta ottenere dalla Corte.
Al divampare della
rivolta siciliana, Alaimo cercava di persuadere
l'animo dei messinesi alla prudenza e alla attesa,
ma il popolo, male interpretando il suo
atteggiamento, lo depose dalla carica di stratigota. Dopo l'insuccesso di
Milazzo, attribuito all'imperizia del nuovo
comandante, il vecchio lentinese fu acclamato
capitano del popolo di Messina, Catania e dei comuni
da Tusa ad Augusta. Sotto la sua guida,
com'è stato detto precedentemente, la città dello
Stretto riusciva a difendere la sua libertà.
Intanto Pietro III d'
Aragona, sposo di Costanza, figlia dj Manfredi,
quindi legittimo pretendente dell'eredità degli
Hohenstaufen, sollecitato dagli esuli siciliani e
chiamato in aiuto dal popolo dell'Isola, era
sbarcato in Sicilia e avanzava alla volta di
Messina. Alaimo, posponendo i
suoi principii personali alla volontà e
all'interesse generale, gli andò incontro con il
popolo (2 Ottohrc 1282) : il re lo fece cavalcare al
suo fianco, gli manifestò la sua gratitudine per la
difesa di Messina e gli disse che ormai doveva
essere dimenticato il tempo in cui aveva parteggiato
contro gli Svevi.
Alaimo affermò di non
essere stato nemico di Manfredi; che a causa delle
fazioni era stato esiliato da lui; era tornato poi
coi Francesi, ma, per amore della patria che vedeva
straziata ed avvilita, era divenuto a loro ostile. Apprezzando la sua
franchezza e nobiltà di sentire e stimandolo degno
di assumere funzioni di responsabilità, il re lo
nominò maestro giustiziere a vita di tutto il reame
( 21 Ottobre 1282), gli diede in feudo le terre di
Palazzolo, di Buccheri e del Casale di Odogrillo e
ne rinnovò la concessione a lui, alla moglie Macalda
e ai figli. Inoltre, prima di
partire dalla Sicilia per Bordeaux, sede prescelta
per il duello con re Carlo, Pietro d' Aragona donò
al gran giustiziere il proprio cavallo, l'elmo, lo
scudo, la lancia e la spada e gli affidò la
protezione della moglie Costanza e dei figli.
Alaimo mostrò di
meritare pienamente la fiducia del re in tutti gli
atti del suo ufficio e, in modo particolare, quando,
assieme a Giacomo, secondogenito di Pietro, domò la
ribellione capeggiata dal barone Gualtiero di Caltagirone, il quale, rifugiatosi a Butera, fu
persuaso dal nobile lentinese ad accettare il nuovo
governo.Quando, però, il barone
si ribellò per la seconda volta, catturato, fu
giudicato e condannato a morte dall'alto giustiziere
(1283). L'autorità e il
prestigio di Alaimo si consolidavano sempre più,
sicché, dopo la partenza di Pietro d' Aragona per la
Catalogna, l'invidia e la gelosia spinsero i
cortigiani a tramare contro di lui. L'occasione fu presto
trovata. Nella battaglia del
Golfo di Napoli ( 1284), era caduto prigioniero
degli aragonesi Carlo lo Zoppo, figlio di Carlo d'
Angiò), e i ghibellini più accesi volevano vendicare
l'uccisione di Corradino chiedendo la testa del
principe catturato. Al loro disegno si
oppose energicamente Alaimo, in qualità di grande
giustiziere. Sospettato di
tradimento dai suoi nemici, divenne inviso al
reggente Giacomo, che volle punire tutti coloro che
avevano impedito la morte dell' Angioino.
Secondo Bartolomeo di
Nicastro, invece, la rovina di Alaimo fu determinata
dalle stranezze e dai maneggi della moglie, Macalda
Scaletta, donna ambiziosa e bizzarra, il cui
comportamento avrebbe provocato l'antipatia e lo
sdegno della regina e della corte. Molto significativo,
per altro, è il fatto che nessuna menzione del
supposto tradimento si trovi nelle cronache di
Raimondo Montaner e Bernardo d'Esclot, scrittori
catalani contemporanei agli avvenimenti.
E' quindi da escludere,
alla luce delle testimonianze dei cronisti e dei
documenti del tempo, che Alaimo avesse verarnente
intrecciato relazioni con gli angioini ai danni di
Pietro d’Aragona e di Giacomo. Questi, volendo
allontanare il giustiziere dalla Sicilia, Io convocò
al consiglio che si tenne a Trapani e gli ordinò di
recarsi a Barcellona col pretesto di sollecitare gli
aiuti contro i francesi, già richiesti a re Pietro.
Alaimo partì il 19
Novembre 1284 e successivamente il reggente ne
faceva imprigionare la moglie e i figli e incamerava
e divideva i suoi beni senza regolare giudizio.
A Barcellona, Alaimo fu
accolto amichevolmente da Pietro III, il quale si
sdegnò per il modo di procedere del figlio,
concedette al difensore di Messina una larga
pensione e promise che sarebbe tornato con lui in
Sicilia.
I nemici di Alaimo,
però, nel numero dei quali erano forse gli stessi
Giovanni da Procida e Ruggero di Lauria, non
desistettero dal macchinare.
Così, alla morte di
Pietro III, Giacomo, divenuto re, temendo che il
nobile lentinese fosse liberato e che " al ritorno
di quel grande potesse seguire qualche novità in
Sicilia “, decise la sua morte. Alaimo fu richiamato in
patria assieme ai nipoti Adenolfo di Mineo e
Giovanni di Mazzarino, anch'essi sospetti di
tradimento. In vista delle coste
della Sicilia, il 2 giugno 1287, i tre prigionieri
furono chiamati sulla tolda della nave e appresero
la loro condanna. “Non meravigliò Alaimo,
ne tremò della morte, ne con vane parole toccò il
passato, o si querelò; se non che risentiva l'acume
di crudeltà che volle comandare tal supplizio alla
vista dell'isola e negargli sepoltura nella terra
degli avi. Del resto, con la rassegnazione del
Vangelo pregava salute al re, ai carnefici stessi
...".
La sentenza fu eseguita
: i prigionieri vennero “mazzerati " cioè rinchiusi
ciascuno in sacchi di tela zavorrati e buttati in
mare. Così conclude l' Amari
il racconto sulla morte di Alaimo di Lentini:
“Approdò a Trapani la scellerata nave; e per tutta
la Sicilia si disse con orrore della fine di Alaimo.
Ricordavano la nobiltà del sangue, il grand'animo
nelle cose della guerra e dello Stato, la possanza a
cui salì, il pazzo orgoglio di Macalda che aiutò a
perderlo; e tremavano gli amici, sussurravano i
guardinghi gran cagione doverne avere per certo il
re. Questi romori in intricato linguaggio riferisce
il Nicastro e riporta con simpatia di dolore tutto
il supplizio e i memorabili detti di Alaimo, forse
il miglior cittadino, certo l'uomo più famoso che la
Sicilia vantava nella rivoluzione del
Vespro “.