Lentini: Uomini illustri
 
Sebastiano Addamo
 
Noto scrittore del panorama culturale siciliano. Nato a Catania nel 1925, è stato docente e poi preside a Lentini dove ha vissuto e si è formato. Oltre che per le sue opere, è conosciuto come opinionista del quotidiano "La Sicilia" di Catania. Nei suoi libri si avverte la fermezza di una lingua sempre sempre più acuminata e concisa, all'interno di una coscienza lucidissima. E' possibile cogliere lo sgomento e il dolore esistenziale di un testimone "minimo" ma non rassegnato. Dalla "mucillagine", dalla futilità del presente, Addamo sa levare una parola risentita che ritaglia negli schemi indifferenti della natura e della storia immagini crudeli ed esatte. Sa proporre, con una strana calma della voce, nuove tracce della dissoluzione, nuovi ragguagli sull'orrore. Dopo lunga malattia, si è spento a Catania il 9 Luglio 2000.
 

In morte di Sebastiano Addamo 
di Alfio Siracusano per LentiniOnLine.it
 
I libri sono per tutti. E ognuno ci legge quello che vuole, o sa. Quello che c'e' scritto e quello che non c'e' scritto. I ricordi sono di pochi. Di quelli che ebbero il privilegio di parlare con lui, anche stando in silenzio. Quando ogni passeggiata era una scorribanda nella repubblica delle lettere, e un viaggio di Vittorini in Sicilia diventava una cosa epica, che si coagulava, a un certo punto, sul "pencola" detto di una saracinesca. Che Addamo aveva scritto e che a Vittorini non piaceva. 
 
Anche se questo privilegio dovette fare i conti col tempo e con le sue vicende. 
 
Una volta Padre Antonio Corsaro aveva tenuto una conferenza sulle colpe storiche della Chiesa cattolica. Si era ai tempi del dialogo, e la Chiesa, una certa Chiesa, faceva i conti con se stessa. Addamo intervenne difendendo la Chiesa cattolica. Perche' nella storia c'e' sempre una moralita', e gli uomini che l'hanno incarnata non potevano essere spogliati della loro tragedia intima. Cosi' era l'uomo.
 
Fu assessore in una giunta comunista, da independente. Al bilancio e allo sviluppo economico. Ma era una finta, e lui lo sapeva. In realta' si voleva averlo accanto quando si discuteva di cose "serie", per farle diventare ancora piu' serie. E lui sapeva anche questo. A Lentini, dove questo avvenne, nei primi anni settanta, si fece quello che a Palermo fu fatto con Sciascia. Ci diceva con garbo, durante le riunioni, che gli sembrava di stare in chiesa, e rispetto' sempre quella chiesa. Noi che eravamo piu' giovani, e che eravamo devastati dall'ottimismo della volonta', sapevamo che aveva ragione. Anche se poi, quando comincio' a non venire, fummo costretti a chiedergli di lasciarci usare le armi matematiche della politica. I numeri appunto. Fu felice di farlo, e ancor piu' che glielo avessimo chiesto noi. Ma gia' pensava a Marco Trigillo, simpatizzante comunista fattosi democristiano, che avrebbe ucciso il suo capufficio, democristiano fattosi comunista. Il libro, Un uomo fidato, usci' nel 1978, ed era il tempo del terrorismo, quando non si capiva piu' nulla e qualcuno che capiva ancor meno veniva indotto anche a sparare. 
 
Una volta stavamo seduti accanto durante una celebrazione del 25 aprile. Parlava sbracciandosi, con linguaggio aulicamente rapisardiano, un esponente della Resistenza di cui non ricordo il nome. Era piccolo, azzimato, e aveva baffi bianchi. "Poveretto", mi disse in quel suo modo sornione, infossato dentro le sue piccole ossa e con gli occhi spiritati dietro le lenti spesse, "e' fascista e non lo sa".
 
Mi diede da leggere in bozza venticinque suoi racconti. Di uno non mi sono mai scordato. Si intitolava "Scarafaggi". Tra le mie carte ho trovato scritto: "Gli scarafaggi sono insieme un  dato realistico e qualcosa di emblematico: cioe' un segno del destino. E c'e' anche qui tanta disperazione: gli uomini lottano contro di loro, e sono loro a vincere. Sono come la miseria, anzi sono la miseria: e' invincibile, davanti ad essa non si puo' soccombere". Ricordo che queste parole gli piacquero. Ora so che questi scarafaggi erano anche altre cose. E che se erano la miseria lo erano anche in senso piu' complessivo.
 
I siciliani, diceva, non si dividono tra quelli che restano e quelli che se ne vanno. Ci sono anche quelli che non se ne possono andare.
 
Gli dobbiamo tutti qualcosa.
 
Lentini, 11 luglio 2000  -  Alfio Siracusano
 

 
Una lunga intervista con un grande scrittore siciliano tenuta per anni in uno scaffale
Addamo uomo-scrittore senza passioni?  di Gregorio Valvo
Lo avevo conosciuto quando il movimento studentesco del ’68 mi aveva portato nel suo liceo Gorgia di Lentini a capo di grande manifestazione di protesta. Avevo scoperto che era vero quello che si raccontava del preside Addamo. Era vero che lui non scoraggiava le proteste studentesche. Era vero che era un uomo di sinistra, addirittura un comunista anche se non sembrava vero in quel tempio di perbenismo che era il Gorgia. Avevo invidiato la facilità di andare in prima pagina sul quotidiano dove scrivevamo (l’Ora? Solo perche’ era un grande scrittore. Lo avevo rivisto poi tante volte. L’ho incontrato l’ultima volta quella sera: il 9 gennaio del 1997. con la troupe avevo invaso ogni angolo del suo studio e del salotto di casa Adamo. All’invasione aveva partecipato il comune amico Pippo Amore che aveva assunto il ruolo di segretario di redazione. Anche lui aveva temuto quello che sarebbe accaduto anni dopo. Tanto parlare per un uomo che schivava il suono delle parole che di solito preferiva scriverle. I fari sempre accesi su di lui per costringerlo a rispondere, anche con brevi silenzi. Volevo filare l’animo di Sebastiano Addamo scrittore. Volevo guardare dentro l’uomo, dello scrittore m’importava poco. Altri sapevano certamente apprezzarlo piu’ di me. Io faccio il mestiere di giornalista, non sono un uomo di cultura e avevo il solo obiettivo di far venire fuori l’uomo che stava dentro l’uomo. Alla sua resistenza ho messo in campo la “cattiveria” di chiedergli delle sue passioni. E quando ha detto di non averne ai avuto, gli ho chiesto di andare indietro nel tempo, di ricordare una donna. E solo una lacrima in quella occasione parlo’ per lui. Oggi chi lo conosce dira’ che quello non era lui. Sebastiano Addamo non poteva avere passione, come se l’avesse giurato a se stesso, come se la vita e’ solo una logica costruzione di eventi. Ebbene in quella lacrima che la telecamera registrava, sotto spessi occhiali, io ho scoperto Sebastiano Addamo. E quelle passioni sopite a forza lo avevano forse portato a scrivere poesie: a dispetto di quanti non lo conoscevano pur vivendogli accanto. Io sono certo di aver conosciuto un uomo che aveva passato la vita a nascondere le sue passioni. fosse anche una sola volta, gli e’ bastata per vivere. E’ morto una domenica di luglio, proprio il giorno che non mi sapevo spiegare il perche’, dopo tanti anni da quell’incontro, mi ritrovavo a guidare e a pensare a Sebastiano Addamo e al perche’ non avevo mai voluto mettere in onda quella lunga intervista. E se non e’ stata una semplice coincidenza temporale Sebastiano Addamo prima di lasciare i suoi libri e le sue poesie ha pensato a quella sera, a quelle telecamere, ai fari che illuminavano il suo studio e a quella lacrima che non aveva saputo trattenere. Sono felice di avere fatto quell’incontro e spero che anche Addamo lo sia stato.

 
Il Prof.Alfio Siracusano e’ stato accanto a Sebastiano Addamo nella scuola e nella vita. Questo e' l’intervento che ha letto nel corso della presentazione del suo libro “la piazza negata”
Il Saggio disarmato di Alfio Siracusano
Scrivo queste note con ancora negli occhi l’immagine sofferente di Sebastiano Addamo e nelle orecchie la sua voce profonda, ma infinitamente stanca. Sembrava di avere davanti la trasfigurazione antropologica del titolo dei suo romanzo “un uomo fidato”, se solo “fidato” sostituiamo “finito”. Che sapeva di essere tale.
Sono vissuto per decenni accanto a lui, ho parlato e discusso con lui una infinita’ di volte, e debbo dire che l’Addamo visto e sentito nell’intervista con Valvo non era l’Addamo che io ho conosciuto. Gli mancava l’ironia, lo scatto della battuta, la velocita’ della provocazione. O meglio: l’ironia vi era, ma spenta; la battuta si affacciava, ma inceppata; la provocazione emergeva, ma lenta. E la memoria vacillava. Addamo aveva avuto una memoria prodigiosa. Conversando con lui si veniva irretiti sempre dalle trappole della sua memoria. Era pero’, questo di Valvo, un Addamo vero. Non pero’ nel senso che era “vero” della verita’ “storica” di quel momento, che sarebbe cosa ovvia. Nel senso invece che restavano intatte, nel tormento delle parole che emergevano a stento, le categorie senza tempo della sua vita. E che riguardavano le cose dette e quelle non dette. Cosi’ nel discorso sulle passioni. “Sono un uomo senza passioni”, diceva. Ed era vero. Perche’ le aveva spente con la ragione. Che e’ sempre pessimista negli uomini intellettualmente onesti, e in quanti si ostinano a guardare alle cose nel segno del giudizio kantiano (il “giudizio”, altra parola cara ad Addamo. L’altro suo romanzo e’ appunto “il giudizio della sera”). Salvo a contrapporvi l’ottimismo della volonta’. Ma l’ottimismo della volonta’ e leopardianamente una cosa futile, che puo’ sconfinare nella vilta’. E Addamo, il mitissimo e disarmato Addamo, non cedeva a questo impulso volontaristico. Giovane, o nel pieno della maturita’, lo smontava con l’ironia e il gusto scintillante del paradosso. Vecchio, come appariva nell’intervista, anzi quasi “finito”, con la rassegnazione. La rassegnazione infinita degli arrivati. Al non temuto capolinea. Tutto e’ stato coerente nella conversazione. La nessuna fiducia nella politica, il nessun rimpianto per il lavoro di preside, e neanche per quello dello scrittore, il vuoto di prospettive per i giovani. Con me si scontrava su questo. Io mi ostinavo a non accettare quella che chiamavo la di-speranza, e che mi pareva nichilismo probabilmente anche comodo dire che non c’e’ nulla per cui lottare e quindi non avere la briga dell’agire politico. Mi rispondeva che forse avevo ragione, che gli dispiaceva, ma che era proprio cosi’. E mi disarmava. La pensava cosi’ anche Sciascia, e in verita’ era per questo che erano amici. Oggi non so se avevano torto. Allora mi pareva di si. Adesso molti dubbi scuotono anche me. La rassegnazione con disincanto fa parte del patrimonio genetico di ogni siciliano che pensa. Un’altra cosa va fatta notare, e sono le sue risposte sulla saggezza. “Parola troppo impegnativa”, dice, ma forse senza esserne troppo convinto. In realta’ egli sapeva bene, anche mentre parlava con Valvo, che la saggezza e’ il distillato di tutte le esperienze, l’umore secreto fino in fondo dal frutto che lo esprime. E qui egli sente, e lo dice con insistenza, esattamente al fondo della spremitura. La vita di ognuno, dice, e’ sempre quello che doveva essere. Anche la sua quindi, che era stata quello che era stata. Senza rimpianti, senza neanche delusioni. Perche’ anche sentirsi delusi e ammettere un’illusione, e l’illusione e’, per definizione, fallace, ingannatrice, illusoria appunto. Ora nei suoi confronti c’era anche la noia. Ancora Leopardi. La sua campagna, alla quale diceva di non potere piu’ tornare (“perche’ non guido”), e dove solo amava scrivere, era in realta’ la metafora di non volersi piu’ opporre alla noia dell’esistere neanche col gesto minimo della scrittura. Che e’ l’atto di saggezza supremo di chi considera inutile tutto, anche la scrittura. Parlando di se’ come scrittore diceva: “ho compiuto il percorso inverso. In genere si comincia con la poesia, si finisce col romanzo. Io ho cominciato col romanzo, finisco non la poesia”. La poesia e’ passione distillata, e’ la pagina che si raggrinza, e’ il fluido che va disseccandosi e insieme si essenzializza. Specie quando essa, come in Addamo, nasce dal pensiero puro. E diventa l’ultimo legame con la vita. Dopo c’e’ solo la pagina bianca. Il non scrivere. Il non andare in campagna, anzi la resa al non poterci andare, ma senza la fatica del rimpianto. Per niente e per nessuno. Neanche per gli uomini. Era l’atto supremo dell’aristocratico chiudersi in se’. Ma la cultura e’ anche questo, assai piu’ nei miti. Valvo parlava, ma non poteva saperlo, con un Addamo gia’ morto anche se ancora vivo. Che addosso pero’ si sentiva l’ansito dell’ictus. Lo vidi l’ultima volta all’ospedale, appunto dopo l’ictus. Mi riconobbe, parlammo. Gli chiesi, dando per scontato (ma non ci credevo) che si sarebbe ripreso e che avrebbe ricominciato a scrivere, cosa stesse facendo allora. Mi rispose “niente!”. Nello scintillio dei suoi occhi accompagnato a una certa smorfia della bocca intesi il senso riposto di quel “niente”. Che era il niente del poi. E in questo c’era l’Addamo vero. Quello migliore. 12 luglio 2000

 
Un ricordo di Gianni Failla  per LentiniOnLine.it  - 15 luglio 2000
 
A settantacinque anni è morto Sebastiano Addamo, scrittore, saggista e critico di eccezionale levatura, giornalista dal 1954. Figlio della nostra periferia pensante, lentinese di adozione, il prof. Nello Addamo è stato protagonista della cultura nazionale e siciliana. A Catania ha vissuto le ultime stagioni della sua esistenza, lontano ‑ per motivi di salute ‑ dai nuovi fasti letterari di inizio millennio. Oggi restano le sue opere, le sue acute critiche alle piccole certezze ed ai grandi limiti del mondo “borghese”. Fu filosofo marxista, lontano dalla Chiesa‑istituzione, ma sempre alla ricerca di una superiore verità che lo rasserenasse anche umanamente. Certamente non aveva stima per tante pseudo‑realtà cattoliche del territorio siracusano. Conosceva bene le controtestimonianze quotidiane dei cristiani e si allontanava dalle mediocrità. Soprattutto negli anni Sessanta, nei licei, visse i fermenti dei giovani con i quali si confrontava. A loro indicava una visione laica della vita. Rispettava chi non condivideva il suo pensiero e comunque ammirava chi in qualche modo emergeva dallo squallore del conformismo. Attento al libero confronto, pronto allo scontro dialettico, ma sempre nell’eleganza dello stile. Austero, fu anche saggiamente sferzante con gli arroganti, simpaticamente sornione con gli sciocchi. Rappresentava un pensiero forte, un’idea tenace che inevitabilmente si contrapponeva ogni giorno con un mondo cattolico che comunque esisteva, operava, si rinnovava. Addamo aveva dinnanzi a sé, alla fine degli anni Sessanta, una presenza ecclesiale ‑ quella del Concilio - attenta, briosa, critica, smaniosa. Poi Nello Addamo trovò progressivamente il vuoto avvilente. Cadde il muro alzato dal suo marxismo, ma nelle nostre realtà si frantumò pure l’impegno entusiasta di chi lo aveva contrastato culturalmente e politicamente. Adesso è forse il tempo dell’effimero, del nulla. Avanza la cultura del disimpegno stupido. Nello Addamo negli ultimi periodi non poteva più incontrarsi o scontrarsi che con i fantasmi del proprio passato. È morto in estate, proprio quando la tintarella copre il grigiore di chi non ha nulla da dire o proporre alla Società. Lui se ne è andato, portando via con sé un mosaico di umanità che non appartiene al Duemila. La “gente che conta”, nel frattempo, continua a frequentare freneticamente trattorie, discoteche, spiagge. Questa massa spesso ride, senza guardare dentro di sé. Di filosofia o di religione non se ne intende: roba del passato!

 
Il giorno in cui processai Sebastiano ADDAMO
di Aldo Failla   per LentiniOnLine.it
 
- Non capita tutti i giorni di poter giudicare il proprio giudice, di potere interrogare colui che dell'arma della interrogazione ha per anni fatto strumento del quotidiano vivere.
- A me è capitato, ed ho potuto sperimentare di persona come la vita talvolta riservi sorprese di innegabile pregio, atteso specialmente lo spessore del personaggio di turno che anima la vicenda.
- Ho avuto il privilegio di ricoprire, per un quinquennio della mia vita, la carica pubblica di Vice Pretore Onorario della Pretura di Lentini, carica peraltro ormai desueta, attesa la (discutibile) decisione assunta dal governo centrale di eliminare la figura del Pretore e, conseguentemente, quella del vice Pretore.
- Occupavo, quindi, anche se indegnamente, la sedia (perchè sempre quella è stata, dal 1948 ad oggi) che fu di Salvatore Paglialunga, di Severino Santiapichi, di Giovanni Falcone, di Vincenzo Didomenico, di Lello Petralia, per tacer d'altri non meno illustri.
- Tra i primi processi che mi toccò di istruire e decidere, grande risalto ebbe quello che vedeva, appunto, quale imputato, Sebastiano Addamo: si, proprio il mio vecchio professore di Filosofia e Storia al Liceo Classico Gorgia di Lentini, del quale istituto, nel tempo, fu anche preside; Sebastiano Addamo, appunto, il terrore degli studenti del tempo, che certamente in molti di essi inculcò il suo pensiero laico ma che, comunque, fece "ragionare" in tanti, con tutti confrontandosi.
- Dunque, dal mio scanno, quello, più alto dell'aula delle udienze, ove si distribuiva la Giustizia, là dove "la Giustizia è uguale per tutti" per definizione, guardavo, sotto di me, al mio cospetto, il prof. Addamo, già divenuto il grande scrittore e saggista apprezzato da tutti, con il compito, anzi il dovere di processarlo, di giudicarlo, magari di infliggergli la giusta punizione, quella che il reo si merita se ritenuto veramente responsabile del fatto-delitto addebitatogli.
- Certo, questa vita, a volte così abulica ed abitudinaria, in quella circostanza mi consegnò su un piatto d'argento la possibilità, unica in verità, di sovvertire le immutabili regole del gioco, di... cambiare le carte in tavola, di essere io il giudice del mio giudice di qualche anno prima, anche se i professori giudici degli alunni non sono, o non dovrebbero soltanto esserlo; ed eccolo, chiamato dal cancelliere in toga ed ermellino, questo mio grande e severo educatore e nemico, per certi aspetti, lì davanti a me, in veste - stavolta lui - di  giudicato: mi apparve subito più piccolo di quello che sembrava a scuola, dove era lui a sedere sul posto più alto ed a guardarci, gli studenti, con tono severo, interrogativo, a volte velatamente minaccioso. Si, mi sembrò più piccolo di statura e, in definitiva, più arrendevole, mi sorrideva ma continuava a guardarmi, quasi a stupirsi di quella pirandelliana situazione, ma conscio della propria parte, rispettoso, appunto, del gioco delle parti, della propria posizione di imputato e di probabile condannato; che diamine, egli aveva proprio una laurea in giurisprudenza, chissà, forse aveva anche sognato di fare l'avvocato, il giudice, ma in quella occasione era un ...normale imputato, quello che non era  altrettanto normale era che a doverlo giudicare era il suo ex alunno con il quale aveva trascorso diversi anni di vita in qualche modo comune.
- E sì, perchè negli attimi che normalmente precedono l'inizio dell'interrogatorio dell'imputato, ci siamo guardati fissi negli occhi ed io non potei tradire la mia emozione nel dovere sentirmi a mia volta interrogato da quegli occhi di grande pensatore che talvolta avevo odiato da studente ma che, per sua ammissione, ero riuscito a fare sorridere sdrammatizzando più volte le sue ore di lezione: "Failla, mi ha detto un giorno, tu sei riuscito al tempo stesso a farmi prendere le più grandi arrabbiature della mia vita di professore ed a farmi sorridere in un'aula scolastica", e non era cosa da poco conto, per lui;
 - Dunque, invitai l'imputato a declinare al solerte cancelliere le sue generalità, cognome, nome, data di nascita, professione, eventuali precedenti penali, e lui mi guardava stupito della domanda, ma si rese subito conto che era quello il modo giusto di celebrare il processo, che, purtroppo, era lui stavolta l'imputato al cospetto del suo giudice: sembrava volesse ricordarmi che, in fondo, dopo il triennio liceale i nostri rapporti erano stati ben diversi, che era stato a casa mia più volte a pranzo, che era amico di mio padre, per il quale aveva un grande rispetto, che era stato tra i primi ad accorrere alla notizia della sua improvvisa morte, che veniva spesso, la sera, in campagna, a piedi, dalla sua poco distante residenza bucolica ove solamente leggeva e scriveva; ma dovette...declinare le proprie generalità al solerte cancelliere, il quale vestiva i  panni di pubblico ufficiale e di ex alunno come me.
- Si stupì, ancora, l'imputato, alla domanda rivoltagli dal giudice, se si ritenesse colpevole od innocente del reato contestatogli; sì, perchè doveva, da imputato, rispondere di violazione di norme edilizie, per avere costruito, appunto, la sua casa di campagna senza il dovuto rispetto della legge !  E per cosa, poi, per quella linda casetta quasi nascosta ai più da vecchi mandorli ed olivi che non aveva voluto estirpare, per concedersi un po' d'ombra e di ricordi !
- Aveva acquistato quel piccolo stacco di terreno, al seguito dei precedenti effettuati da mio padre e da mio zio, agli inizi degli anni sessanta, non attirato, lui, dalla possibilità di immolare al Dio arancio tutti suo risparmi, per poi venirne clamorosamente tradito, ma dal desiderio di vivere alcuni mesi dell'anno lontano dai rumori della città, ed ivi potere leggere tranquillamente la montagna di libri che possedeva e potervi scrivere i suoi, come avvenne; scelse quella zona perchè lì c'erano i suoi amici, aveva la certezza di non rimanere isolato, perchè da quella zona semicollinare, tutto sommato più vicina a Catania, poteva guardare senza esserne disturbato, anzi immaginandoli, i clamori delle sue due città di appartenenza, Lentini e Carlentini e già allora notavamo come stessero avvicinandosi fisicamente, con le nuove costruzioni lentinesi: chissà, se un giorno si sarebbero potuti unificare i due centri, non soltanto strutturalmente, questo si dicevano i due carlentinesi e lentinesi per scelta ed esigenza lavorativa, Addamo e mio padre.
- Allora, l'imputato, di certo addottrinato, non si dichiarò colpevole, non dette al suo giudice temporale quella soddisfazione, ma quasi con sarcasmo ed ironia (erano le sue doti maggiori) disse che, forse, il reato, se mai si fosse consumato, era già coperto da prescrizione od amnistia.
- Diamine, anche io sapevo l'epoca di costruzione di quella casetta, dove il professore studiava e leggeva ed era quasi sempre assorto nelle sue meditazioni, tanto da non accorgersi, un giorno, che un ladro era entrato in casa saltando sopra il tetto con grande rumore, ritenendo la casa disabitata, tanto era silenziosa; e quel maldestro ladruncolo, cadendo dal tetto, pure si fece male e si spaventò nel vedersi soccorrere dall'impensabile abitatore, pronto ad accorrere in suo aiuto; e quando i due si presentarono, credo che il ladruncolo rifiutò, per propria ignoranza, l'unico bene asportabile e di una certa importanza di quella casa e che comunque gli venne offerto: un libro; e se ne andò ancora incredulo e zoppicante, tenendosi il dolore quale indistruttibile prova di ciò che gli era successo, per non passare  da visionario al primo... collega che avrebbe incontrato.
- Per quella casa di campagna, che, in tempi recenti, non poteva più nemmeno raggiungere, non potendo ormai guidare la macchina e nessuno lo accompagnava, quindi, dovette anche subire questo strano, ma giusto processo e, come tutti i processi, dall'incerto esito.
- Lo assolsi, nel profondo rispetto delle norme, non concessi favori, lui ascoltò con rispetto la lettura della sentenza, quindi mi chiese se poteva attendermi per un caffè, lo concessi, svestii la toga interrompendo momentaneamente (e con piacere) la udienza, andai a prendere il caffé con il vecchio professore da poco assolto, lui mi disse che era giusto così, che non si sentiva un favorito, perchè aveva letto le carte.
- Più avanti negli anni, una delle tante riunioni della Commissione giudicatrice del Premio di Poesia dialettale "Ciccio Carrà Tringali", indetto del Kiwanis Club Lentini, della quale fu superbo ed ispirato presidente per quattro edizioni, si svolse, appunto, nella già incriminata casa di campagna e là, io immeritevole presidente del club, mi chiese se mi ricordavo di quel processo; e come potevo mai dimenticarlo, fu la mia risposta immediata, un fatto simile non capita certo tutti i giorni.
- Immagino che adesso egli si sia trovato al cospetto di ben altro Giudice e che Lo abbia guardato fissandolo con quegli stessi occhi che fissarono quel giorno il suo giudice temporale: non so immaginare le sorti del confronto nè se per i suoi torti, ammesso che ne abbia avuti, sia stato perdonato, con conoscendo, io, le carte che abbia portato con sè nell'estremo viaggio; non so se stiano ancora ragionando, avendo certamente difensori di fiducia i suoi Leonardo Sciascia e Vanni Scheiwiller; nè, infine, se quegli occhi, già miracolati in un pio istituto romano, si siano davvero spenti per sempre. Aldo Failla

IN RICORDO DI SEBASTIANO ADDAMO   di Lorenzo Marotta per LentiniOnLine.it

con un suo intervento inedito del 1995 sulla poesia del nostro tempo

Ricordiamo tutti Sebastiano Addamo come una persona schiva, minuta, riservata, a tratti distratta. Lo vediamo quasi scomparire dietro ai suoi spessi occhiali di miope, sprofondato nelle sue giacche larghe, dimesse, silenzioso,con lo sguardo perso dietro ai fantasmi della sua mente di narratore e di fine poeta. La terra di Sicilia è prodiga di talenti dimenticati dalla sagra televisiva del momento, ma non i siciliani che a quelle voci sono debitori di una identità culturale e storica di cui non possiamo fare a meno. Cosi per Leonardo Sciascia, per Gesualdo Bufalino, per Vincenzo Consolo, per Giuseppe Bonaviri, tutti scrittori autentici, le cui opere dovrebbero trovare più spazio nelle scuole, fra i giovani. Conoscere e rileggere le loro opere come ricerca delle nostre radici, come comprensione più piena della storia di questa isola sospesa nel mediterraneo, aperta da tutti i lati a cogliere ed intercettare gli umori culturali di altri mondi, di altre terre vicine e lontane.  Non solo un omaggio ai nostri scrittori, ma un debito di riconoscenza  e di memoria. Anche perché, come per Sebastiano Addamo, le parole sulle sorti della poesia, pronunziate con un filo di voce Sabato 18 giugno del 1995 nel salone dell’Azienda di Cura e Soggiorno di Acireale a margine della cerimonia di premiazione del Premio nazionale di poesia inedita promosso dal Kiwanis Club di Acireale, sono attuali, sorprendentemente vere. Una prolusione dimenticata, rimasta sotto la polvere dell’oblio, se non fosse venuta alla luce per caso, frugando tra le mie carte e il materiale abbandonati nei cassetti di casa. Allora chi scrive volle Sebastiano Addamo come presidente della giuria. Ricordo la mitezza della sua voce quando gli telefonai per chiedergli la sua presenza. Come pure la finezza con la quale sapeva cogliere sfumature e immagini nella selezione delle poesie da premiare. Anche durante la cerimonia Sebastiano Addamo sembrava quasi chiedere scusa della sua presenza. Le luci, i riflettori, quel qualcosa di mondanità che inevitabilmente accompagnano queste serate non erano per lui. Egli era abituato alla penombra, ai silenzi della sua anima, ai rumori dei suoi pensieri e della sua mente. Figura di intellettuale di altri tempi. Basta leggere i suoi libri, i romanzi “ Violetta”, Mondadori 1962, “ Il giudizio della sera” Garzanti 1974, “ I mandarini calvi” Scheiwiller 1978, “ Un uomo fidato, Garzanti 1978, le opere poetiche “Significati e parole, Guanda 1979, “ La metafora dietro a noi” Spirali 1980, “ Il giro della vite” Garzanti 1983, “ Il bel verbale”, Scheiwiller 1984.  Un editore, quest’ultimo, di finissimo talento letterario, anche lui schivo, se pure sempre gentile all’incontro. Le sue edizioni di opere poetiche rimangono delle chicche preziose per la cultura italiana, esempio di editori colti e raffinati. E agli Editori Sebastiano Addamo dedicò un aureo libretto dal titolo “ Racconti di Editori”, pubblicato in edizione numerata proprio da Scheiwiller nel 1991. Ne conservo, come reliquia una copia, la numero 220, con la dedica fattami il 23 aprile 1994. Un’attestazione di stima, scritta con grafia incerta. Ma ora sentiamo la sua voce, attraverso le parole che pronunziò nel corso della premiazione dei poeti vincitori.

Una riflessione sulla “poesia”, senza un duro giudizio sulla facile pretesa di essere poeti e  di fare poesia. “Nell’insieme i testi, per la maggior parte, mi sono apparsi un po’ opachi e ripetitivi, in qualche caso addirittura raffazzonati ed anche velleitari. Ho notato un fenomeno curioso: molti di questi testi avevano come referente le canzonette”. Per il nostro poeta la poesia non può avere una realtà artificiosa, inautentica. Una commistione che egli volle denunciare, portando ad esempio il cantautore Bob Dylan, che mutuò il nome in riferimento alla poesia del poeta inglese Ivan Thomas, alla quale sentiva di ispirarsi.  Ora per Sebastiano Addamo era all’incontrario. "Ho notato la mancanza di ricerca, di scavo linguistico, di appiattimento tematico, una mancanza di invenzioni e di arditezze”. Poi, quasi una sentenza lapidaria: “Con i buoni sentimenti non si fa letteratura, né arte, né poesia”.

Alla domanda di “che cosa è la poesia?”, posta da alcuni,  Sebastiano  Addamo disse che quella domanda l’aveva inquietato durante la notte. “Personalmente non c’è una risposta ed io nemmeno la tenterò”, disse. Poi, quasi parlando a se stesso aggiunse: “Si può dire che la poesia è inquietudine, angoscia, talora anche ebbrezza e gioia. Lacrime di gioia, scriveva Pascal utilizzando un ossimoro. Pascal non era poeta, bensì un mistico, un uomo di religione. La poesia può avere a che fare con tante cose: con la cultura in genere, con i problemi dell’economia politica che non può ignorare. Oggi, infatti, la poesia non ha mercato. Gli editori la stampano con difficoltà, non ha pubblico, al massimo qualche lettore”.

Addamo porta ad esempio la sua vicenda personale. Per la pubblicazione delle sue opere di poesia gli Editori non prevedevano alcun anticipo in denaro, a differenza dei suoi romanzi e dei suoi saggi. “Io pensavo che la poesia fosse al di fuori dell’economia politica. Purtroppo non è così. Nel rapporto tra il dare e l’avere la poesia è sempre in perdita. Forse è per questo che accetto di partecipare come commissario ai concorsi di poesia, poiché si tratta di giovani che comunque si impegnano in un’attività senza fini di guadagno. Un’attività del tutto gratuita”.

Sebastiano Addamo ricorda il grande Montale e quello che disse nel 1985,  durante la cerimonia di conferimento del Premio Nobel per la letteratura. “ Montale, riprendendo motivi già esposti in un suo libro del 1966, Auto da fè, osservava come il mondo dell’industria, della riproducibilità e della consumabilità sta avvallando una poesia ridotta a spettacolo e a consumo. Da qui la domanda: è ancora possibile la poesia? Montale non ha alcuna risposta. Forse la sente inutile. Una perplessità che in verità attraversa tutto il nostro secolo e che non può essere rimossa né elusa”. Perché i poeti ? “ Era stata la domanda che si era posta Martin Heidegger nel 1946, commemorando l’anniversario della morte del poeta G.P.Richter. Heidegger utilizza il testo della poesia intitolata Pane e vino di F. Holderlin. Egli si chiedeva il perché dei poeti nel tempo della povertà. Un tempo non soltanto caratterizzato dalla mancanza di Dio, ma consumato, divenuto tanto povero da non potere riconoscere la mancanza di Dio come mancanza”. A questo punto Sabastiano Addano tenta di rovesciare la domanda. “ La questione implicita è se nel tempo dell’inautentico, della banalità, possa trovare posto la poesia? E’ importante, intanto, che la domanda sia stata posta. Montale in fondo lo ribadisce quando si chiede se è possibile la poesia. Chiedersi del perché della poesia significa che è in questione la sua necessità”. “ La poesia nel mondo d’oggi appare perdente. Ci si rende conto che i libri di poesia sono manoscritti dentro una bottiglia lanciata in mare. Se incontra una corrente favorevole forse riuscirà ad approdare su una spiaggia, altrimenti il suo messaggio rimarrà per sempre muto”. Solitudine e isolamento sembrano per il Nostro autore le condizioni di vita dei poeti, soprattutto nelle società di massa, le quali, dice, non hanno occhi al di fuori di se stesse. “Dobbiamo convenire che quasi mai la poesia è contemporanea a se stessa”. Addamo cita Leopardi che era riconosciuto come filologo e non come poeta. Come pure l’opera condannata di Baudelaire. “Nella poesia non c’è nemmeno speranza di futuro - continua Addamo. Poi un affondo premonitore: “Oggi la storia è un valore perduto. Ho l’impressione che non è più in causa il valore che il libro eventualmente comunica. E’ in causa lo stesso libro come valore”. Un’esplicita accusa alla modernità della tecnologia e dell’elettronica che per se stessa ne sancisce la fine. Addamo ricorda il filosofo Vattimo, ricorda come Parmenide prevalga su Eraclito, cioè l’immobilità sul movimento. Per questo chiedersi del perché dei poeti e della poesia nel nostro tempo appare un pleonasmo. Aveva ragione Oswald Spengler : mediante la tecnica l’uomo ha dominato le forze della natura, ma adesso si tratta per l’uomo di potere dominare le forze della tecnica. “ Intuiva il pensatore tedesco che tra queste due realtà sarebbe intervenuta prima o poi una lotta a morte. E’ in pieno svolgimento l’assalto della tecnica ai fenomeno della vita. L’essenza stessa della vita viene ad essere rimessa alla produzione tecnica”. Non è un caso, dice, che Heidegger ricorda queste cose parlando di Holderlin. La povertà di cui parlava il poeta equivaleva in realtà alla pienezza della tecnica e al vuoto che essa produce.

“Può darsi - afferma con un sussulto Addamo - che possa essere questo il luogo e il momento della poesia, cioè esattamente questo vuoto”. Per lui forse bisognava partire da esso, sfiorare l’orlo dell’abisso, tentare di trattenere la luce obliqua e morente del mondo. In fondo al tunnel della notte Addamo tenta di scorgere un piccolo squarcio di luce come invito alla vitalità della poesia, ma nel regno del consumo e dell’effimero per il Nostro poeta “il punto finale non è nemmeno la morte”.

Lorenzo Marotta

 
           
 
da "le linee della mano" - Garzanti 1990
Sentirsi seduto davanti a uno / è come andare con passo sicuro / senza avere una meta, ed è il / gioco segreto del possibile, / l'affranto bilanciere dove sì e no / s'appiattiscono, / tutto inutile / nella radura della notte, / i volti annegano amari, / l'avvilimento della breve / zolla che si disfa nel grande / precipizio d'un muro d'acqua.
Se oggi fosse l'ultimo. / O questo minuto verticale / segreto, pieno di caldo, esitante, / l'istante di questo sguardo / l'albero che intravedo altero / frastagliare il grande arco / del giorno. / Il frammento, la scaglia netta / rilucente / la grata che traspare / cogliere il retro, l'avamposto / la carrucola che nel pozzo scuote / la voce. // Come avviene quando / da lontano / si guarda il monte frondoso oscurarsi / a poco a poco sommergersi / le conche, le bianche rocce / la perplessa voliera che s'affanna / tutto al suo posto, senza orizzonte / scendere intanto per l'occidente / una resina lenta un po' serica / incolore / una pasta tattile, senza peso / persistente / che inesplicabile diffonde / sul giorno perso, sul tuo sonno sparge / sulla creta viva /sfrenato l'odore di menta.
 
da "Alternative di memoria"  - ed.Scheiwiller 1995
Come al mattino   le sirene delle fabbriche, come / il ragno appiattito nell’ombra / come la mosca ronzante contro / vetri trasparenti e tersi / come per la strada la gente corre / e i volti dementi paiono felici. / Si spaccano le vene di luce / ammucchiate come formiche / Ti raggiunge il terrore. Resti / senza occhi nella tua rivolta / d'esilio.
 
Opere
 

Violetta

Mondadori 1963

Il giudizio della sera 

Garzanti 1975  

I chierici traditi  

interventi sulla lett.contemporanea

Pellicano libri 1976  

I mandarini calvi

ed.Scheiwiller 1978  

Un uomo fidato

Garzanti 1978

La metafora dietro a noi 

ed.Spirali 1980

Le abitudini e l’asssenza

Sellerio ed. 1982

Il giro della vite (poesie) 

Garzanti 1983

Palinsesti borghesi

tre racconti

ed.Scheiwiller 1987

Zolfare di Sicilia

(saggio con foto)

Sellerio ed. 1989

Oltre le figure

Sellerio ed. 1989

Le linee della mano

(1983-1987) - poesie

Garzanti 1990

Racconti di editori

ed.Scheiwiller 1991

Piccoli Dei

Il Girasole 1994

Alternative di memoria

(poesie) 

ed.Scheiwiller 1995

Non si fa mai giorno

Sellerio ed. 1995

 

Il ponte levatoio (poesie) - ed.della rocca 1996

 

 
 
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