SICILIA - TRADIZIONI E CULTURA
Bottaio
Il bottaio "u vuttaru ", era uno di quei mestieri che
venivano considerati privilegiati e di difficile esecuzione. Il procedimento di
lavorazione era fatto necessariamente a mano e consisteva nel sistemare delle
listelle di legno, di preferenza castagno, o rovere (per le botti che dovevano
contenere vini o liquori pregiati ). Queste listelle di legno, doghe, potevano
avere dimensione diversa in funzione delle dimensioni della botte che si doveva
costruire, il lavoro cominciava col sistemare ogni doga, perfettamente piallata,
in una forma circolare al cui interno c'era un fornello per alimentare una
fiamma, la doga era normalmente più larga nella parte centrale e più stretta
alle estremità, il numero delle doghe variava in funzione della capienza della
costruenda botte, il fornello centrale serviva per fare quel vapore necessario a
rendere il legno più duttile ed elastico alla lavorazione e facilitare la
necessaria curvatura delle doghe, inoltre era essenziale per liberare il tannino
dal legno, sostanza che passa facilmente nel vino e lo rende tossico. Per
completare il lavoro occorrevano inoltre sei cerchi di ferro di diversa
dimensione e due coperchi "timpagni ", che avevano il diametro della
dimensione del foro finale della botte. L'arte magica del bottaio era ed è, per
quei pochi artigiani rimasti; quella di far aderire le doghe l'una all'altra,
tenerle con i cerchi metallici che venivano poste naturalmente all'esterno
aiutandosi con uno speciale attrezzo a forma di scalpello smussato con un lungo
manico che si colpiva con un martello e tutto questo veniva fatto senza l'uso di
collanti, ottenendo dei contenitori che non facevano perdere il liquido
contenuto. Purtroppo la moderna tecnologia ed il ricorso massiccio a contenitori
di acciaio e di vetroresina stanno facendo scomparire la magia di un mestiere
affascinante.
Calzolaio
Il mestiere del calzolaio "scarparu" nel catanese o "solacchianeddu"
nel palermitano, è un mestiere antico e per molti versi in antitesi con i
dettami della vita moderna, infatti esso consisteva e consiste per chi lo
esercita, nel costruire scarpe su misura (che si rivelano
"indistruttibili"), ma in ciò che egli si dimostrava prezioso per le
esigue finanze delle famiglie contadine era nal lavoro di aggiustare le scarpe,
risuolatura, mettere i sopratacchi e ricucire le parti che via via andavano
sdrucendo. La materia prima utilizzata dal ciabattino e in relazione al tipo di
lavoro e all'uso che si farà delle scarpe. Se deve fare delle scarpe che
serviranno per una occasione, la pelle sarà delle più pregiate e le rifiniture
molto più curate, le scarpe da lavoro saranno costruite con un principio che si
ispira alla robustezza ed alla solidità. Infine se deve fare un lavoro di
trattamento della scarpa (risuolatura ecc...) il materiale che una volta si
usava era il cuoio duro, mentre oggi si è più portati ad usare materiale di
gomma. Gli attrezzi, che sono gli strumenti indispensabili al suo lavoro, che in
parte non si sono modificati sono, delle forme in ferro di varia dimensione che
servono per inserirci le scarpe un caratteristico ed affilatissimo coltello
"u trincetu", il martello anch'esso dalla forma caratteristica,
tenaglia, lesina, spago, aghi, cera, pece, vetro per levigare le suole, e tutta
una serie di piccoli chiodi "a siminziedda" , il tutto sparso su un
basso tavolo da lavoro "u bancareddu". A completare un lavoro
artigianale ben fatto; la solerzia, la pazienza e la passione dell'artigiano.
Cannizzaru
La canna comune(Arundo donax), che cresce spontaneamente lungo i
corsi d'acqua e in genere in terreni sabbiosi e paludosi, era molto usata
nell'ambiente contadino per la sua molteplicità di usi. Serviva per costruire
ripari, fungeva da palo di sostegno delle viti degli alberelli ancora deboli, la
si usava per delimitare i confini di una proprietà, e per costruire silos
contenitori di frumento. Il Cannizzaru era la figura addetta alla costruzione
dei silos per i cereali. Cominciava il suo lavoro già nei mesi di Gennaio e
Febbraio, quando raccoglieva ed avvolgeva in fasci canne grosse e lunghe dai
quattro ai cinque metri. Le lasciava essiccare al sole ed al vento fino al mese
di Giugno e solo allora passava alla costruzione dei silos. Il Cannizzaru
disponeva le canne spaccate su un piano perfettamente livellato e procedeva ad
una vera e propria tessitura. Nella fase di definizione, quando la superficie
tessuta veniva avvolta a cilindro e sollevata verticalmente, l'artigiano
ricorreva alla collaborazione di un volontario che, dentro il silos, recuperava
e gli restituiva ogni volta il grosso ago col quale si procedeva a cucire il
complesso.
Cardatori, filatori, tintori e
tessitori
Nella zona della ricerca il paese che produceva fibbre tessili era
Carini, infatti in questo paese si produceva molto lino (Linum usitatissimum),
agave (Agave sisalana), ampelodesmo "'ddisa" (Stipa tenacissima),
cotone (Gossypium hirsutum), canapa (Cannabis sativa) e molta lana (prodotta
anche in altri paesi della ricerca), da ciò lo sviluppo di una discreta attività
artigianale inerente alla trasformazione delle fibre. Così per esempio, giunto
il lino a maturazione, si falciava e si si consegnava ai marinai, i quali lo
seppellivano a mare per un certo periodo, giunto a maturazione, si procedeva
alla cardatura che consisteva nel battere il lino fino a renderlo filamentoso;
dopo di che si consegnava ai filatori, che lo rendevano appunto in fili e si
consegnava ai tintori. Cotone, agave, lana, ampelodesmo, subivano lo stesso
procedimento, tranne che per il bagno in acqua di mare. Purtroppo questi
mestieri sono scomparsi nella zona. L'ultima fase della artigianale era
rappresentata dalla tessitura delle fibre, che si svolgeva in appositi telai. I
prodotti più fini di questo processo, cotone e lino, erano riservati per la
dote delle signorine delle famiglie più facoltose.
Carrettiere
Il carrettiere era un trasportatore di merci varie, che andavano dai
prodotti stagionali della campagna al materiale da costruzione, al carbone, al
concime. Generalmente lavorava per conto terzi, proprietari terrieri,
commercianti e costruttori; raramente lavorava in proprio e cioè comprando e
rivendendo egli stesso la merce. I rapporti tra produttori, acquirenti,
carrettieri erano spesso curati da un sensale. I carrettieri in linea di massima
godevano di un mezzo di loro proprietà: un carretto e un cavallo. La forma di
pagamento era quella a viaggio, la retribuzione era pattuita in base al percorso
da compiere e al tipo di trasporto; chi lavorava per conto terzi poteva essere
retribuito anche "a terzo", cioè percepiva un terzo del guadagno
derivante dal servizio di trasporto. La vita dei carrettieri era " 'nca si
caminava stratuna stratuna "( che si era sempre in giro per le strade),
lungo i percorsi si fermavano " nno funnacu " fondaco, luogo di sosta
dove i carrettieri albergavano assieme agli animali e per mangiare" un
piattu ri pasta agghiu e ogghiu " (pasta con aglio ed olio) chiamata a
tutt'oggi alla carrettiera, o " all'asciuttu, pani cu cumpanaggiu "
(pane con formaggio e olive). Nei fondaci i carrettieri si scambiavano le loro
esperienze di vita, si informavano sui prezzi correnti nei vari paesi, ma
soprattutto cantavano a gara , sfidandosi a chi sapesse il canto più bello.
Ragione di incontro erano poi le fiere di bestiame e le feste religiose dove
essi convenivano insieme alle famiglie con cavallo e carretto riccamente
bardati. " Cacciari a misteri " , cioè guidare il cavallo a regola
d'arte è ciò che distingue un carrettiere vero da chi " caccia a fumirari
", come un portatore di letame. L'appartenenza alla loro categoria era
avvertita con orgoglio; essi, con il fatto che andavano in giro per la Sicilia,
conoscevano molte persone, insomma si consideravano profondi conoscitori della
vita. Del mondo così riccamente articolato dei carrettieri, che cosa è
rimasto? Purtroppo questo passato si presenta in maniera frammentaria nella
memoria di qualche anziano, un passato, però, cui si è rimasti affettivamente
legati, che non viene cancellato dalla propria storia. I carrettieri hanno
sostituito il mezzo di trasporto, divenendo per la maggior parte camionisti o
venditori ambulanti, chi tra essi ha conservato il carretto, assegna a questo
antico mezzo di trasporto un valore immenso, come se si trattasse di un gioiello
di famiglia. Il carretto oggi ha un valore essenzialmente affettivo, esso è
simbolo della vita del carrettiere, una vita che ha profonde radici nella storia
delle generazioni, una storia sempre presente e viva nella memoria. I canti dei
carrettieri vivono ancora oggi numerosi e rappresentano una delle espressioni più
importanti della nostra musica etnica. In sostanza quei canti, le specifiche
modalità della loro fruizione all'interno dell'ambito sociale in cui sono
vissuti confermano un concetto d'arte, di arte popolare, come tecnica, come
qualità privilegiata.
Cufinaru e fasciddaru
La materia prima utilizzata da questa figura professionale era il
giunco, variamente intrecciato e lavorato in relazione anche al genere di pianta
utilizzata. Si trattava di attività periodica che assorbiva pochi mesi
dell'anno. I tipi di giunco cui si faceva solitamente ricorso erano due: il
primo (detto iunco munti),esile e lungo, era invece utilizzato nella
fabbricazione di fiscelle per formaggi e ricotta. Le tecniche di lavorazione
erano naturalmente diverse e richiedevano differenti competenze ed abilità. Nel
primo caso, in particolare, il giunco veniva "cardato", schiacciato
cioè per essere successivamente sottoponibile alla torsione secondo un
procedimento assimibile a quello adottato nella tessitura della prima nana.
Curdaru
Il luogo di lavoro del curdaru era la strada. Per questo speciale
artigiano qualsiasi spazio andava infatti bene, purchè abbastanza esteso da
consentire la stesura dei filati: le lunghe vie strette ed ombrose, le piazzole
retrostanti le chiese purchè poco frequentate. Nel condurre le operazioni di
filatura il curdaru metteva in mostra la sua maestria, frutto di anni di
apprendistato, ed una speciale abilità nel coordinare i movimenti delle mani e
dei piedi. L'attività nel suo complesso richiedeva però la collaborazione
esperta e fattiva, di più persone ognuna delle quali impegnata in fasi che, più
che succedersi, si accavallavano. Il lavoro alla ruota manovrata a mano per
imprimere movimento alle pulegge, il bagno in vasche di pietra in cui venivano
immerse le matasse delle filacce, la lavorazione e la torsura delle corde stese
ad una certa altezza da terra, il successivo stenderle per asciugarle: erano
tutte operazioni regolate e successive che potevano essere portate a termine con
la fattiva collaborazione del gruppo di lavoro.
Innestatori
Quello dell'innestatore, era un mestiere molto diffuso, anche per
questo mestiere non occorrevano moltissimi arnesi, infatti esso consisteva
nell'innestare a secondo del tipo di innesto, marze o gemme, della cultivar che
si voleva impiantare in portainnesti già esistenti. L'abilità dell'innestatore
consisteva nella conoscenza, spesso dettata dall'esperienza, della compatibilità
dei due soggetti (portainnesto ed innesto), per evitare inutili perdite di tempo
e di reddito con le disaffinità di innesto che si possono verificare tra le due
specie , altra grossa maestria era quella di far coincidere le zone cambiali dei
due soggetti, in modo da avere una maggiore sicurezza per la riuscita dello
stesso. Gli arnesi solitamente usati dagli innestatori erano una sega "sirraculu"
ed una serie particolare di coltelli chiamati appunto da innesto, oltre rafia e
mastice. I moderni impianti vivaistici, che vendono alberelli già innestati
hanno contribuito non poco a fare scomparire questo mestiere, che attualmente è
praticato da qualche vecchio amatore della campagna, o professionalmente nei
vivai.
Intaccatori
Questo tipo di mestiere non aveva bisogno di molti strumenti di
lavoro, infatti esso riguardava sostanzialmente la raccolta della manna. La
manna è un essudato zuccherino (leggermente lassativo) rappreso dell'orniello (Fraxinus
ornus dell'ordine delle Oleales). Molto spesso proprietario del frassineto ed
intaccatore coincidevano. La manna matura nel periodo estivo (da luglio ad
ottobre), essa sgorga dagli intacchi fatti con appositi coltelli sul tronco
dell'orniello. Da questi intacchi fuoriesce favorito dal calore questo essudato
zuccherino. Le incisioni si praticano quando gli arbusti hanno raggiunto i due
metri di altezza e un diametro di 5-6 cm circa, esse vengono fatte fino
all'alburno, la manna che fuoriesce dalle prime incisioni spesso non solidifica
e viene raccolta, ancora liquida, sopra rami concavi di fico d'india (pale), che
si tengono appositamente al piede dell'albero; il liquido proveniente dalle
incisioni (fino a 90 incisioni nel corso della stagione) successive di colore
bruno con fluorescenza azzurra, si rapprende invece dentro poche ore, e se
l'intacco è fatto da mano esperta, da luogo, scolando lentamente e regolarmente
lungo il fusto, ai cosiddetti "cannoli ", che possono essere lunghi 60
- 70 cm.
In commercio esistono tuttora diverse tipologie di manna, che
dipendono dalla uniformità della colata, essi sono; "manna a cannolu"
la migliore perchè scende fino al suolo ed è conosciuta anche come "manna
di Capaci" nonostante in questo paese esistono attualmente pochissimi
esemplari di orniello, "rottame" costituita da pezzi di manna di varia
dimensione, o "corrente" la più scadente costituita da pezzettini
ancora più piccoli del rottame. La maggiore insidia per la coltivazione della
manna è costituita dalle piogge estivi, infatti l'acqua la dissolve
completamente, essendo essa idrosolubile.
Mietitori e spigolatori
Le due attività, di mietitura e spigolatura, erano due lavori
stagionali concatenati, legati alla coltivazione del grano. La zona di
riferimento della ricerca non era e non è una zona cerealicola, quando a fine
giugno si cominciava a mietere il grano, dove questo era più coltivato , era
frequente assistere alla migrazione di numerosi contadini "viddana"
verso le zone cerealicole, attirati da un congruo guadagno, che faceva
dimenticare l'immane fatica del lavoro e la lontananza, anche se temporanea, dai
propri affetti più cari, al lavoro della mietitura seguiva il lavoro più
umile, ma non meno faticoso della spigolatura, che consisteva nella raccolta
delle spighe che rimanevano sul terreno fuori dai covoni di grano, a queste due
fasi seguiva la trebbiatura delle spighe per dividere la granella dalla paglia (spagliari).
Nella zona di riferimento della ricerca la mietitura era riservata soprattutto a
quelle essenze foraggiere che costituivano il rifornimento essenziale per i
prosperosi allevamenti della zona.
Pescatori
Reti, nasse, molta audacia e conoscenza delle abitudini dei pesci
erano e sono gli arnesi dei pescatori della zona. Le reti e le nasse più che
opere di artigiani specifici erano il frutto del sacrificio del pescatore o dei
membri della sua famiglia, anche se l'intreccio delle nasse o la tessitura delle
reti richiede una particolare maestria, che potrebbe far pensare a degli
artigiani specifici. Per le reti un tempo si usava la canapa o il cotone, questo
tipo di materiale aveva bisogno di molta manutenzione , infatti succedeva che
qualche pesce restava tra le maglie della rete ed imputridendo determinava la
lacerazione della stessa ed il pescatore era costretto a rammendare utilizzando
uno speciale ago "vugghiola " nella quale era avvolto il filo di
cotone o di canapa, ora invece si utilizza filo di nylon, che è molto più
resistente e meno attaccabile delle fibre naturali. Esistono diversi tipi di
reti, che assumono diversa denominazione in funzione del tipo di pesca svolta:
reti di posta con deriva (alalungara); reti di circuizione ("u cianciolu
"),che un tempo aveva la lunghezza di 250 m ed adesso se ne tessono di 1000
m ; reti di posta senza deriva tremaglie o " rrizzuolu "; reti da
traino " a stràscinu " come la paranza. Per la costruzione delle
nasse la materia prima è costituita dal giunco (detto iuncu munti), importato
solitamente dalla provincia di Catania. E' necessario tenerlo in acqua per 24
ore prima di cominciare ad intrecciarlo in modo da formare le piccole maglie
romboidali tipiche delle nasse, che verranno utilizzate nella così detta pesca
minore. Nella fabbricazione delle nasse il pescatore comincia l'intreccio della
campana esterna, il cui anello terminale è costituito da una verga di
oleastro,si procede quindi alla tessitura della parte interna, a forma di
imbuto: i fili terminali di questa parte costituiranno la maglia a trappola che
impedisce ai pesci di uscire, una volta penetrati all'interno della nassa. Fatti
combaciare perfettamente la campana e l'imbuto, il nassaru procede alla
tessitura finale del coperchio. Le nasse nella zona erano utilizzate soprattutto
per la pesca degli "asineddi ", tipo di maenide (maena smaris). Per
pescare questa specie bisognava conoscere il ciclo della specie , infatti il
periodo più propizio era fra marzo e giugno, periodo in cui essa è nella
stagione dell'amore " u varu ", l'abilità del pescatore consisteva
nell'individuare il branco fra i fondali di "rinazzuolu ", che è
formato più da terriccio che da sabbia.
Ricamatrici
Accanto al mestiere della sarta, era praticata anche l'arte del
ricamo. Spesso esso era eseguito per l'allestimento della dote delle ragazze
della famiglia, ma non era raro trovare chi ricamava per le ricche signore del
paese e del vicino capoluogo, contribuendo così alle scarse finanze familiari.
Il lavoro del ricamo si svolgeva, a secondo della estensione del capo da
ricamare, o in un lungo telaio "tilaru ", in cui si lavorava a quattro
mani, o in un maneggevole telaio formato da due cerchi concentrici, di diametro
di 30 cm circa, in cui si incastra il tessuto da spessore variabile ma mai più
. I punti che maggiormente si eseguivano nella zona erano:(i così detti punti
sfilati) il 400, il 500 il 700 ; il punto ad intaglio ; il punto rodi ; il punto
croce ; il pittoresco ; il punto norvegese. Da menzionare assieme a questi punti
impegnativi ci sono pure ; il lavoro ai ferri, con i quali si facevano calze e
maglioni per tutta la famiglia, ed il lavoro ad uncinetto, che è un piccolo
ferro della lunghezza di 25 cm circa e di spessore variabile ma mai più spesso
di 3 mm, con il quale si riusciva a fare anche delle bellissime copriletto
matrimoniali.
Saponaro
Intorno al 1900 uno dei mestieri tipici di Capaci era quello del
saponaro. Il sistema di fabbricare il sapone consisteva nell'utilizzare la
morchia "muria" (residuo dell'olio d'oliva), che il saponaro comprava
al frantoio locale o in quelli dei paesi limitrofi, oppure la reperiva da
persone che la compravano a loro volta in giro per i paesi "i murialori
". La Muria veniva raccolta e conservata negli otri " utra "
(recipiente di pelle di capra) e poi lavorata con l' aggiunta di cenere (ottima
quella di scorza di mandorle verdi ), che contiene potassio, questo ultimo
serviva per fare avvenire l'idrolisi alcalina degli acidi grassi . Il tutto poi
veniva versato in un tipico recipiente "quarara " dalla capienza
variabile, ma mai inferiore a 500 l, e fatto bollire nell'apposita "
Fornacella" col buco nel centro. Questo recipiente era collegato con dei
tubi a delle vasche. Dopo cinque ore di cottura, il sapone, che via via si
formava finiva nelle vasche di raffreddamento dove veniva rimosso spesso con
l'aiuto di una cazzuola da muratori, quindi veniva conservato in delle latte o
barili e pronto per la vendita. Quando il sapone riusciva troppo molle veniva
chiamato "trema-trema". Se si voleva che il sapone assumesse una
colorazione verde, nella prima fase di cottura si aggiungevano dei rami di fico
d'india "pale ". Il sapone che si otteneva nella zona, appunto per
l'utilizzo del potassio e non del sodio, era quello molle, che si usava per
lavare la biancheria.
Siggiaru
Quella del siggiaru era un'attività lavorativa semiprofessionale,
in quanto integrata periodicamente con attività consimili.Oltre che costruttore
di sedie, quest'ultimo, svolto per le strade dei paesi e dei quartieri urbani.
Il lavoro di costruzione di una sedia era costituito da due fasi distinte. La
prima consisteva nella sacomatura, nell'intaglio e nell'incollaggio delle aste
di legno lavorate variamente (ncavigghiari i seggi era il modo di intendere
complessivamente questo complesso di operazioni). La seconda fase, spesso
riservata alla collaborazione dei membri della famiglia, moglie e figlie in
primo luogo, consisteva invece nell'intreccio e nella definizione del fondo
della sedia (ntranari i seggi era l'espressione usata per indicare questo
secondo complesso di operazione). L'abilità dell'artigiano si manifestava nella
sicurezza con cui incideva e rifiniva i singoli elementi, al fine di poterli
successivamente assemblare senza alcuni intervento correttivo. Nella tessitura
del fondo della sedia si manifestava invece, accanto all'abilità, il gusto
delle decorazioni e delle varianti ad un modello sostanzialmente unitario.
Stagnino
Un altro dei mestieri che resiste ma che un tempo era molto
praticato è quello dello stagnino "stagnaru". L'artigiano
aveva due luoghi di esecuzione della sua professione; nel laboratorio e nelle
strade. Il lavoro consisteva nel fare le saldature a stagno per "aggiustare"
vari tipi di recipienti metallici; pentole, pentoloni "quarare,
contenitori di lamiera per l'acqua da usare nelle abitazioni "quartare,
ma soprattutto nel passare o ripassare uno strato di zinco all'interno delle
pentole di rame. Quest'ultima operazione era necessaria per poter utilizzare le
suppellettili di rame, perchè esso rilascia una sostanza tossica a contatto con
gli alimenti, lo strato di zinco creava un sicuro isolante. Gli arnesi che erano
usati dallo stagnino erano: delle grosse forbici per tagliare le lamiere da
utilizzare per rattoppare, un ferro per fondere lo stagno ed applicarlo nei
posti dove era necessario, la forma di questo arnese era più o meno quella di
un martello di ferro con la parte finale del manico composta di materiale
termoisolante in considerazione del fatto che la parte metallica veniva immersa
nella brace incandescente, delle barrette; di una lega di stagno e piombo (per
le saldature dolci) di una lega di zinco rame e piombo (per le saldature forti),
dei martelli di varia dimensione per sagomare i rattoppi di lamiera. Il metodo
di saldatura sfruttava la diversa fusione dei metalli, il ferro aveva la stessa
funzione dei moderni saldatori per i circuiti elettrici, ma a differenza di
questo era riscaldato col fuoco quindi strumento indispensabile per gli stagnini
era un fornello per il fuoco, che spesso era una normale latta di quelle usate
per le riserve alimentari, la latta era riempita di carbone, al quale si dava
fuoco fino a ridurlo in brace.
Zimmilaru
La materia prima impiegata in questa attività era costituita dalla
palma nana (Chamaerops humilis) "giummara" di cui venivano
utilizzate sia le foglie lanciformi che la parte centrale, tenera e filamentosa
(curina). La pianta veniva divelta nel periodo primaverile e lasciata ad
essiccare al sole, per poi lavorarne le foglie nel periodo estivo. Si
fabbricavano scope e scopini di vario tipo e destinati ad usi diversi. Dalla
parte centrale della pianta si ricavavano invece cordicelle ed intrecci vari
utilizzati successivamente nella tessitura di contenitori. Lo zimmini (da
cui la denominazione dell'operatore) costituiva il contenitore di derrate
agricole cui si faceva più ricorso. Lo zimmilaru svolgeva la treccia
ripiegandola ogni volta verso il basso, in modo che le punte delle lacinie
laterali si accavallassero su quelle interne, alternativamente, assumendo la
conformazione di una spina di pesce.