Tempo biografico - I vissuti nel linguaggio del narrare
Lentini - La piazza rossa(…) "Anelli, spille, orecchine, caaarte e buuste!!". Col suo carrettino tirato a mano Don Sabbaturi vanniava la merce povera di una ancor più povera economia, dove emergeva il desiderio di un ritorno alla vita che in qualche modo si connotasse di bellezza e la carta da lettere rinviava a parenti lontani da cui si aspettava un qualche aiuto, quale che fosse. Erano i tempi della miseria quando non della fame, in cui ogni famiglia ogni giorno inventava la sua vita. Rompere un piatto diventava tragedia, e quando accadeva mia madre s'i rava tutti ri'ncoddu, e si tirava i capelli. Qualcuno raccoglieva scammuzzuna, e vendeva in piccole panchette il ricavato in tabacco, e i grandi gareggiavano sull'abilità nell'usare le cartine con cui si facevano le sigarette. Coi bossoli dei proiettilli si costruivano accendini, e comparivano i primisi, che erano fornelli a petrolio, e si vendeva la legna per cucinare, mentre solo i più benestanti si potevano permettere i focolari a papuri. I miei avevano un pò di frumento, ma ugualmente mio padre spiculiava e con la bicicletta andava a macinare, mentre fiori per qualche tempo, a dar linfa alle segherie, un commercio di sandali di legno cuoio non ce n'era. Quando piccolino servivo messa, ed ero anche bravo a ripetere le formule latine, stavo attento a camminare sul tappeto dell'altare che attutiva il rumore dei sandali, e non era rispetto del luogo sacro. Era vergogna di dichiarata miseria, perché tale sentivo la mancanza di sandali di pelle e cuoio. E l'orizzonte si allargava, e la chiesa, la parocchia, diventavano il mondo. Vestito da chierichetto accompagnavo i morti, e una volta padre La Rosa mi regalò trenta lire, che mi parvero un enormità, e mi lasciarono uno stupore, associato a quel numero, che non mi ha mai abbandonato.
Anche la musica incontrai. Mia madre, che una volta era stata corteggiata da uno che suonava il violino, avrebbe voluto che imparassi a suonarlo, e fu così che mi mandò a scuola di musica presso la banda del paese. Io ero promettente, e imparai presto il solfeggio, e già dovevano darmi il flauto quando d'improvviso mi prese il terrore di dovere poi, vestito da musicante col berretto rotondo in testa, andare dietro la vara di Sant'Alfio a suonare durante la festa. Da quel momento non frequentai più.
Avevo l'età in cui mio padre aveva cominciato a lavorare, come mi raccontava, piccolo piccolo, a cacciari fumeri, e poi lo avevano mandato dal mastro scarparo, e ancora si ricordava del mestiere, e siccome erano tempi di bisogno, la domenica si armava di lesina, lignolu e trincetto e si aggiustava le scarpe. Poi aveva imparato il mestiere di muratore, intagliatore per l'esattezza. A scuola sua mamma lo aveva mandato, ma frequentò fino alla seconda. Un giorno tirò il calamaio addosso alla maestra, e i suoi lo mandarono a lavorare. Frequentò poi le serali, fino alla sesta, orgogliosamente diceva.
I pacchi dell'America ci aiutavano a vestirci. Mia madre era stata causunara, e fu buona cosa perché le misure dei pantoloni che mia zia ci mandava dalla California erano troppo grandi per mio padre, e quindi mia madre scuciva e ricuciva, per lui e per me, anche perché la stoffa, la robba, era buona. Anche quella che usava per sé, proveniente dagli abiti della sorella. Coi vestiti giunsero sapori sconosciuti, rimasti nella memoria: il latte in polvere, le pastine gialle in busta, il caffè, le caramelle colorate. L'America, prima che quella del cinema, furono quei pacchi, e le lettere di mia zia scritte in siculo-italo-inglese, e le foto dei miei tre cugini vestiti da soldato, che sembravano stirati freschi. E furono anche i racconti di altre emigrazioni, come quella della zia Zedda, sorella di mia madre, in anni lontani andata sposa per procura in America e qui rinchiusa in quarantena in un collegio di suore dove era stata afferrata da improvvisa vocazione, con mio zio che bramiava come un cane dietro il cancello, e meno male che gliela diedero, sennò quello un macello avrebbe fatto! Ma in America c'era stata poco, anche se il marito, come lei lentinese anzi dello stesso putticatu, dal porto dove lavorava a scaricare le navi le portava ogni ben di Dio.
Intanto i ragazzi eravamo investiti da venti di violenza, quasi si sentisse il bisogno di combattere anche noi la nostra guerra, e fiorivano bande che si affrontavano in battaglie a colpi di spade di legno, e non sempre i colpi erano finti. Ero la banda di Gim Toro, e al campo sportivo un giorno mi aggirai sperduto in mezzo ai combattenti in uno scontro con la banda dei crociati. Per farci i carruzzeddi cercavamo ruote a palline in uno spiazzo vicino alla stazione, pieno di carri armati e di macchine sfasciate, e si diceva che lì c'era stata una battaglia e che tutte quelle cose le avevano lasciate i tedeschi.
L' appartenenza ai quartieri era un valore che quasi quotidianamente i ragazzi difendevamo con la strittta, che erano poi fitte sassoiale tra gruppi contrapposti. I quartieri erano luoghi dormitoio in cui i lentinesi si ammassavano com'e cunigghia, costretti in case piccole, il più delle volte senza igiene, senz'acqua, con la fontanella pubblica luogo di approvvigionamento e, per noi ragazzi, di giochi. Eravamo badioti, firioti, santamaravicchioti. . Io ero sampaulisi. E le strade brulicavano di vita, di donne affaccendate, di galline,di asini e cavalli col loro sterco. Ma di questo sterco non ricordo lezzo. Avevo undici anni quando sentii parlare di Superga, e fu accanto al Cinema Tirrò dove andavo la domenica presto, e siccome c'era sempre folla, specie quando facevano le americanate, io ero capace di vendermi il posto due volte, perché c'era sempre chi non voleva lasciare la moglie all'impiedi col rischio che tra la folla qualcuno la toccasse. Alla cognata però Diffinu Libbranti il posto glielo procurava con facilità. Gli bastava fumare il suo puzzolente sucarru, e la gente sgombrava. Era alto e imponente, tutto l'opposto di don Sabbaturi, suo padre, corto e bianco di capelli, che curava tutto coll'olio gassolio, e di petrolio morì.
Il posto al cinema era un valore in quegli anni, ed era ressa incredibile quando aprivano i botteghini, coi più forti a fare i biglietti per quelli più deboli, tanto che poi, quando fecero l'Odeon, di botteghini ne fecero due e ci misero anche le grate di ferro.
Quanti anni avevo quando marinai la scuola e andai al Seggio, dove i più coraggiosi facevano anche i bagni, e conobbi il dolore paterno? Lo vidi, né mai potrò dimenticarlo, nello sguardo muto e immobile di un uomo a testa china, dritto davanti al cadavere di un ragazzo come me, mentre più discosto donne si dimenavano piangendo. Il greto del fiume era largo e silenzioso, con rocce che affioravano ed erano quelle in cui le donne antiche stendevano i panni quando venivano lì a lavare. Si diceva che sotto l'acqua che scorreva placida si nascondesse l'insidia del lippo che trascina giù.
O quando conobbi l'arte?
Tre nomi, e tre volti, affiorano dal libro della mia memoria.
Il pittore Pupillo era un uomo minuto, dai capelli rossicci e ricciuti. Lavorava in una stanza ingombra di tavole dipinte e il suo mestiere era riempire di figure armate le sponde dei carretti, e lo faceva con pennelli sottili e con la mano appoggiata ad un'asticina. Estasiato, restavo per ore a guardare, e vedevo i cieli azzurri, e mi meravigliavano gli ovali rosa che poi diventavano facce di eroi il cui nome conoscevo perchè me ne parlava mio padre, con occhi e barba e baffi neri: Ruggero, Rinaldo, Bradamante, ma anche Turiddu, e compare Alfio e Lola... Caracciolo faceva statue in un botteguccia ad angolo, piene di opere cominciate e con davanti alla porta grossi blocchi di marmo bianco. Bianco era anche lui, di polvere e di capelli, circondato dai disegni e dalle foto che dovevano ispirarlo, ed io guardavo imbambolato il marmo candido che un giorno era grezzo e l'indomani, dopo ch'egli lo aveva aggredito con mazzuolo e scalpello, aveva la forma voluta, e poi ancora, colpo dopo colpo, cambiava, diventava un volto, un gesto, ed era gesto o di Cristo o di Madonna per lo più, o delle persone sconosciute delle fotografie, e mi intrigava, per i morti, ricercarli, quei volti, dentro il cimitero... E poi c'era Ciccio Carrà Tringali, che era un vecchio che faceva poesie. Canuti i capelli e la barba, magro e curvo, mi stupì la facilità delle rime un giorno che lo vidi in una segheria dove ero andato a prendere della legna, e lo faceva per gli amici presenti che gli chiedevano versi improvvisati e lui li accontentava con la facilità disarmante di chi non fa nessuno sforzo per cose straordinarie per gli altri:
"Quannu viru a Diffinu Tumaseddu iù ci li rassi tutti ccu 'n matteddu..."
"Ma queste sono stupidaggini", diceva:
Una volta lo vidi dopo la festa di Sant'Alfio, che girava per il paese con un cartello in cui c'era scritto: "O luvativi i debbiti".
E un giorno trasalii, al cinema, quando nel buio della sala la mano sfiorò il seno di una ragazzina seduta accanto a me.
Fu forse allora che quattru e quattru smisero di fare ottu...
Alfio Siracusano
da Lentini, la piazza rossa