Lo spazio sociale quotidiano
Un percorso nella memoria
Mi si chiede di scrivere qualcosa sulla forma urbana di Lentini. Già arduo per uno che ne è lontano da oltre un decennio. Mi è inoltre accaduto che sempre più quella che doveva essere una riflessione sulla concretezza del reale se ne allontanasse ad ogni tentativo di accostamento, scegliendo invece un itinerario tutto mentale, un percorso nella memoria, anzi un'accensione di fotogrammi frammentari riemersi dagli anni dell'infanzia e dell'adolescenza. Senza propriamente deciderlo ho ripensato alla mia città da un punto di osservazione forse inevitabile: dalla linea d'ombra segnata dall'età e dal distacco. Ma poi anche la forma di una città che cosa è per noi se non una mappa cognitiva tutta interiore, ciò che sappiamo o sapevamo di essa, ciò che avevamo percepito e appreso, una costellazione di luoghi, parole, volti, pietre, odori, sensazioni? E in più lo specchio può essere eroso e annerito o forse proprio fatto di lucida nerissima ossidiana, di poltiglia vetrosa di natura vulcanica, o concavo o convesso o deformante e riflettente il solo negativo delle immagini e a brandelli senza cura ormai del reale e solo attento a che una privata verità trovi alla fine la sua privatissima parola. Con qualche sofferenza quindi ho scritto e in contrasto forse con l'ottimistico volontarismo di chi investe sul futuro giustamente assegnando borse di studio ai giovani studenti di Lentini. E di ciò chiedo scusa. (Anche se poi non è detto - ed è mio l'ottimismo - che a confrontarle queste parole con quelle di altri, armati di altri strumenti, non si possa meglio scorgere qualcosa, sia pure per contrasto, sotto il cielo basso e incerto del presente). Provo a rintracciarla dunque questa mappa nata in anni lontani e resa arbitraria dalla distanza e parto dall'esterno, dai margini, dai confini, quasi carezzando le linee che la contengono, e ricordando, per metodo e consonanze, l'esordio d'una splendida pagina di Vincenzo Consolo sulla Sicilia: Venticinquemilaquattrocentosessanta chilometri quadrati di superficie, milletrentanove chilometri di costa, la Sicilia, questo triangolo, quest'isola in mezzo al Mediterraneo è quanto fisicamente di più vario possa in sé raccogliere una piccola terra.......
Ecco i giardini di aranci. La città trapassava nell'agrumeto verdissimo, la campagna diventava città per cesura improvvisa, senza l'incompletezza intermedia, senza la terra di nessuno dell'abusivismo e delle forme edilizie degli anni dello "sviluppo". I giardini erano cintati da muri, neppure sempre a secco, anzi a volte intonacati di grigia malta screpolata dal tempo, percorsi da erbe, cespugli, capperi e rampicanti. Anche i cancelli, le gebbie, i canali per l'irrigazione, le masserie nascoste nel verde avevano la perfezione immediata della bellezza (...sembra inverosimile - sono parole di Sciascia - ci sia stato un tempo, per un paese siciliano.. .in cui la bellezza, è il caso di dire, faceva nozze con la pubblica utilità: ché oggi ci accontenteremmo di questa o di quella solamente). Lì la zagara intensa e il luccichio dei frutti, lì la fatica il lavoro l'assillo la rabbia l'odio di classe la ricchezza.
Ecco le colline dai nomi magici, i santi Mauro ed Eligio e Demetrio, il Crocifisso e il Tirone e Ciricò e Pancali e Cillepi. E che suoni in quei nomi! Per balze e per dirupi, per contorsioni di sentieri appena leggibili il paesaggio si faceva aspro e antico, dietro ogni anfratto, dietro ogni verde sperone di roccia o dentro incàvo grotta ed ipogeo si celava epifania improvvisa, un graffito nel muschio, una trama di affresco, una pietra lavorata: il segno dalla roccia umida e corrosa o teschi e cocci e tesori affioravano dal terreno ed altre apparizioni a quel punto non erano inattese: una qualche intermedia divinità, almeno un semidio pagano poteva sorridere ammiccante da un cespuglio di bosso e poi sparire. E' stato Franco Condorelli in una serie di acquerelli del 1982 a restituirci il senso di quei luoghi e di quelle pietre, la loro collocazione in un ordine cosmico al di là di una storia - quella degli uomini - che pure, per silenziosa e residua pietà, essi lasciano ancora trapelare.
C'erano altre forme di pietra, come la chiesa della Trinità, di una bellezza tutta irrisolta e sospesa: la facciata così armoniosamente centrata nel prospetto ampio del monastero avrebbe forse avuto bisogno di una piazza vastissima, di potersi aprire come la cattedrale di Noto sullo splendore di uno scenario obliquo di gradinate o come la chiesa del Carmine sul grande spiazzo oblungo del mercato a Catania. Ma tutta la città sembrava essere il regno di una bellezza più possibile che reale, tutta da immaginare, da lavorarci nel pensiero giocando sullo scarto e sulla frizione col reale, così irregolare e contorta, così restia nella fatica delle sue libertà a progetti globali e a illuminate pianificazioni come quelle che dopo il terremoto del 1693, per somma di volontà regie e nobiliari e monastiche, avevano fatto il volto nuovo e magnifico di Catania, di Noto, di Grammichele, e di tanti altri paesi della Sicilia orientale.
Molti anni dopo, fra il 1970 e il 1975, si sarebbe infranta l'unica "illuministica" utopia, quella di Otello Marilli (che lentinese non era) e dei redattori di un primo piano regolatore, l'utopia di poter decidere sulla forma della città, di contenere lo sviluppo edilizio verso le zone basse, di riqualificare e riusare il centro storico. Cadde per difetto assoluto di potere, di norme, di mezzi, ma anche per la assoluta mancanza di una idea
di città condivisa e condivisibile: la cultura delle classi di riferimento non era urbana e quella che c'era stava per essere distrutta da una catastrofe culturale forse senza precedenti e difficile allora da avvertire in tutti i suoi esiti. (Della scomparsa delle lucciole aveva parlato in un provocatorio articolo Pier Paolo Pasolini prima di morire. E a Lentini, anche a Lentini come in tutta la Sicilia, cominciarono i primi morti ammazzati per le strade).
La via Garibaldi sghemba e obliqua. Nella memoria di quegli anni quasi buia e percorsa dai riti del passeggio, singolare ideologia di insoddisfazione e noia mista ai primi fremiti della carne e dell'intelletto, dalla villa a risalire verso il centro (più tardi, molto più tardi, l'avrei interpretata con paradossale arbitrio alla luce di Eliot: Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, I Ch'i' non avrei mai creduto che morte tanta n'avesse disfatta I Sospiri brevi e infrequenti, se ne esalavano, I E ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi...) senza ingresso però nella grande piazza fitta di figure nere di soli uomini, apparentemente immobili e silenziosi: il regno di un'altra classe, diversa negli abiti, nei modi, nel colore quasi della pelle, con codici e speranze diversi dalle nostre, una piazza che la piccola borghesia, appena uscita dalla guerra piena di paure (paura di Dio, del sesso, del comunismo, del presente, del passato e del futuro), solo con fatica e timore ed esitando osava attraversare... Certo più tranquillizzante per l'identità di ciascuno poteva essere un giretto alla villa. Locus amenus imperfetto e trasandato, ma pur sempre praticabile e praticato, col suo sgriccio dell'acqua e la vasca delle papere. Lì anche Gorgia, che ancora in un seminario parigino del 1964-1965 Roland Barthes celebrava come inventore della prosa-spettacolo e maestro di assonanze, simmetrie, antitesi, allitterazioni e metafore, sembrava afono e pacificato nell'espressione inerte di un busto marmoreo. Chi poteva ricordare (e a chi?) il tema pericoloso della retorica, della "tecnica privilegiata che permette alle classi dirigenti di assicurarsi la proprietà della parola"? Bastava solo sapere allora che quel vecchio barbuto e poi il Notaro e Riccardo e Alaimo e il Beneventano "benefattore" della città erano lentinesi e da opporre alle brutali lacerazioni del conflitto sociale. Al centro della villa il palchetto della musica, tristemente in disuso, evocava i suoni di una banda che pure c'era stata (e il maestro era poi il padre di un mio maestro di musica) e da qualche parte gettati alla rinfusa c'erano ancora gli archivi, spartiti ingialliti e vecchi strumenti, testimonianza di un piano di mediazione culturale che, anche marginalmente, era stato operoso nell'aspirazione ad una comunità possibile. Beneventano - bianchissimo senatore del regno e barone di pallida nobiltà - la chiudeva in fondo, seduto nel suo monumento, dignitoso, ma niente di più. (L'arte vera e grande era altrove, retaggio di un remoto passato principesco. In un vasto casone del Biviere ad esempio "con pochi quadri ma belli, fra cui -scrive Cesare Brandi - un San Giovannino che potrebbe anche essere un Caravaggio, Un'incredulità di San Tommaso, di un caravaggesco siciliano, il Rodriguez, e un Ercole che fila presso alla giunonica Onfale... di Pietro da Cortona"). Ma più quell'altra ho amato villetta disadorna e pitagorica, quasi pensile, al confine fra i quartieri (un triangolo di radi alberi con al centro infissa una sfera di pietra perfetta) e silenziosa sempre, tranne che al mattino quando agli uccelli si univano centinaia di bambini piccoli e piccolissimi vocianti prima dell'ingresso nell'edificio brutto e severo di una scuola elementare. Lì ci attendeva, all'uscita, il verde triangolo a lungo intravisto dai vetri, fedele nella sua quotidiana promessa di libertà.
E c'era il mare in questa costellazione mentale, il mare di Lentini e dei lentinesi. Si arrivava percorrendo giardini di limoni sempre minacciati dal vento marino, poi un boschetto, lontano fra gli alberi appariva l'azzurro intenso ingemmato in mille scaglie iridescenti dai riflessi del sole sfolgorante e preceduto da una spiaggia di sabbia chiara e finissima come talco che andava acquistando consistenza per mutamenti al tatto appena percettibili man mano che si andava a sud, da Vaccarizzo alla foce del San Leonardo verso Agnone dove all'improvviso la costa divergeva, si parava scura davanti allo sguardo, si mutava in strapiombo e in murrazzo e castelluccio, diveniva selvaggia e infine saracena! Anche il mare si trasformava, s'insinuava audace fra gli scogli: in pozze d'acqua verde smeraldo, con la bonaccia, rivelava in trasparenza fantasmi di rocce, bastioni e fondamenta di difese e di approdi cancellati dal tempo.
E i fiumi, sì c'erano i fiumi, qualcuno misterioso sotterraneo e segreto, altri, già a ridosso dell'abitato ma in cui era possibile bagnarsi, o persi in volute sinuose nelle campagne, allo sguardo invisibili, solo segnalati dai canneti fittissimi alle sponde. E ancora immagini di pietra e di luce nel mio specchio corroso: le pirrere, le cave di pietra, luoghi di fatica immane, lavoro quasi da schiavi ma, abbandonate, buone per giocarci a pallone, tagliate in verticale sui colli, abbaglianti nel sole dell'estate e magiche ugualmente alla luce spettrale del plenilunio, per me quasi bambino scenari di sogno e di teatro. Come avrei voluto lì fare risuonare musiche e parole! Deh peregrini che pensosi andate. . .Dante, sì mi sembravano adatte a Dante nella mia follia.
Così la ricordo, varia di pietre, di volti, di colori, contraddittoria e diseguale, sofistica e distruttiva ed aspra e dissonante, come la musica dura e avanguardistica dei suoi jazzisti, pronta al furore e alla rabbia come i tamburi di Alfio Antico, capace di porre domande e problemi al pensiero come i suoi intellettuali, dall'intelligenza feroce e tagliente di Addamo a quell'altra vecchia volpe astuta del deserto di Sgalambro...
Come è adesso non so, ma da qualcuno di questi fotogrammi, anche falsati dal tempo (e deformati dalle parole), si dovrebbe forse ripartire
Riccardo Insolia
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