Lo spazio economico
I magazzini della stazione
Cominciarono a morire negli anni '70, quando venne il tempo della "rinfusa". Quando cioè la arance raccolte dagli alberi, e ammassate subito nelle cassette di plastica, venivano avviate direttamente nei centri di raccolta del nord, dove si sarebbe provveduto a "lavorarle" per immetterle nei mercati così come i mercati richiedevano.
Per gli agrumai interni, anima dei magazzini, fu subito un colpo, e una cultura cominciò a venir meno. La cultura del palpeggiare le arance, dell'intuirne ad occhio e col sapiente palleggio della mano il calibro, dell'avvolgerle nelle veline colorate coi nomi delle varie Ditte per poi disporle sapientemente in file oblique nelle eleganti gabbiette. Le arance lucide di cera trasparente, con la buccia venata di rosso come rossa era la loro polpa, eleganti, belle perché tutte uguali, col peduncolo tagliato alla misura giusta, perché i raccoglitori stavano attenti a non strapparle dagli alberi, e il raccoglierle era stato tutto un lavoro di forbici che poi "u tagghiaperi" completava.
Non fu morte tuttavia, quanto piuttosto un trapasso, lungo quanto la crisi infinita che da allora distrugge questo segmento unico dell'economia lentinese, rimasto inesorabilmente fermo alla logica di quegli anni; logica di proprietari terrieri che consideravano il loro prodotto prezioso e unico degno di attenzione e di commercianti che consideravano acquisiti per sempre metodi e guadagni; logica anche di insostenibili mediazioni parassitarie. I risultati sono oggi visibili nelle strade della "Stazione", ora in gran parte silenziose anche nei mesi in cui "allora" massimamente esse straripavano di vita.
Da quando, a novembre, "si apriva il marchio", fino ad aprile, stagione degli ovali, in quei grossi capannoni che erano i magazzini, e ce n'erano dovunque, piccoli e grandi, si lavorava a ritmo intensissimo, o "per l'estero", coi mori che erano più resistenti, o "per l'Italia", coi tarocchi di buccia più fine e comunque merce più preziosa, e fino a tarda ora le incartatrici palpeggiavano e sistemavano le arance lucenti, sotto l'occhio vigile de "mastri", nelle belle gabbiette colorate, o nelle retine, o nei cestini, mentre a mano a mano si ammodernavano i rulli trasportatori o i separatori di calibro, che però non potevano sostituire il tocco sapiente della mano femminile. E mentre dentro i magazzini fremeva la vita, i camion scaricavano la merce raccolta, che veniva, negli impianti più grossi, sistemata nelle celle frigorifere. I vagoni intanto, o i grossi autocarri, venivano caricati di merce da spedire. Nelle campagne, a meno che non piovesse, le ciurme raccoglievano instancabili altra merce, e poi a fine giornata la casse si pesavano e si "consegnavano", coi proprietari attenti davanti al "bilico" e competenti nel seguire le operazioni.
Quando poi era "l'ora di mangiare", e nei magazzini il lavoro si fermava, le strade si animavano delle centinaia di donne e uomini seduti al sole a consumare le pietanze portate da casa, e dovunque, tra i frizzi che rimbalzavano dai gruppi di maschi a quelli delle femminile, era saporita mescolanza di odori casalinghi: u pani ri casa, i pipi sicchi, a sasizza, u cudduruni, li alivi a puddascedda....
Ogni tanto c'era lo sciopero, magari una volta l'anno, sotto Natale. E allora i luoghi si infiammavano, e gli animi con essi, in clima di scontro totale, finché tutto finiva e riprendeva il ritmo normale del lavoro. Poi le arance si esaurivano. Allora i magazzini chiudevano, gli impianti si fermavano, le donne tornavano al loro lavoro di casalinghe, gli agrumai interni andavano a fare i muratori, o i salariati agricoli, o anche niente. Alcuni avevano guadagnato abbastanza, in quella "campagna", per tutto l'anno.
Quanti erano i magazzini? Decine, nei momenti buoni, e molti anche grossi. Qualcuno grossissimo, come quello del "Nupral", poi trasmigrato a Catania e inghiottito dal vortice dei tempi cambiati. Che i padroni dei magazzini non capirono, come non li capiromo i proprietari terrieri, piccoli e grandi, non li capi l'intera classe dirigente della nostra città. Che si illudeva di costruire il suo futuro sulle sole arance, e sul solo venderle, e sempre più si accorge che il futuro è ben altra cosa.
Oggi di magazzini ne restano pochi, e a contarli, tra piccoli e grandi, bastano le dita delle mani, e neanche sono più soltanto alla "Stazione". Perché il trasporto si fa su gomma, e i Tir mostruosi hanno soppiantato lo scalo diventato inutile.
Alfio Siracusano
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