Quante volte si era sentito dire che l'asino o
il mulo in casa, assieme alle persone, non ci poteva stare? Eppure, per
necessità o miseria, o per tutte e due le cose, giacché di una stalla non si
poteva disporre, sarebbero stati davvero in molti che nella propria dimora ci
avrebbero fatto entrare persino i porci se ne avessero avuti, e ci avrebbero
anche dormito accanto, magari con il pensiero fisso e irriducibile di
poterseli mangiare prima o poi. Ma, gli animali si sa, durante la notte, con
il buio, i propri bisogni li fanno lo stesso e naturalmente dove gli capita,
non si preoccupano di cercare una latrina o un posticino appartato. Le bestie,
proprio perché tali, di certe cose non si fanno scrupolo. E allora? Allora,
per gli umani sarebbe bene che avessero un po’ di prudenza in più per certe
situazioni, e magari fossero più preparati a qualsiasi evenienza,
specialmente se avessero deciso di convivere insieme a porci e muli nella
stessa stanza di una piccola casa a piano terra.
Alfio Laudani e Fina Liotta si erano sposati da alcuni anni ormai, ma il
problema dello spazio nella loro minuscola dimora gli si era presentato ancora
prima di mettere su casa insieme. Addirittura, dopo la nascita del primo
figlio, lo spazio essenziale che è necessario ad ogni uomo per vivere
decentemente, s’affermò come il pensiero di cui preoccuparsi primariamente,
soprattutto per la difficile soluzione che si prospettava che, sicuramente,
non avrebbe trovato un pronto rimedio dall’oggi al domani.
Purtroppo, dentro quella casa erano già in molti quando ci
abitavano solamente marito e moglie, figuriamoci con un bambino piccolo e con
il mulo piazzato di spalle, o di chiappe per meglio intenderci, proprio ai
piedi del letto coniugale. L’animale non dava eccessivo fastidio, se stava
sempre con la testa nella mangiatoia di legno per riempirsi lo stomaco e per
raccattare qualche fava che si trovava in mezzo all’orzo e alla granaglia.
La casa, se casa si poteva chiamare un unico vano a
pianterreno, era del tutto ingombra già con il letto grande degli sposi. Però,
per gioco forza, dentro ci avevano infilato anche un tavolo da pranzo, un
canterano con lo specchio sbiadito, due comodini traballanti, un armadio
sottratto alle pareti, una cucina a legna, il gabinetto e la mangiatoia per il
mulo. Eppure, tutte le cose erano disposte in modo allucinante e fantastico
allo stesso tempo, proprio a conferma che ogni casolare, pur piccolo che sia,
può contenere tutto ciò che vuole il suo padrone.
In verità, le esigenze di quei tempi traboccanti miseria e
privazioni erano poche e semplici, tanto che ci si viveva persino in mucchio
dentro un unico locale angusto: il marito, la moglie, quattro figli almeno, il
mulo (chi lo possedeva), la vecchierella vedova ed inferma, e chi poteva
comprarla aveva una nassa con quattro, sei galline per le uova.
Nel tempo che si racconta stavano proprio così le cose
della povera gente, e la situazione della famiglia Laudani non si scostava di
nulla da quella menzionata.
Chiuso l’uscio di casa per dormire la sera era tutto un
programma.
Durante la notte, lunga dal tramonto allo spuntar del sole,
c’erano ben dodici respiri che si confondevano e si mischiavano nell’unica
stanza col tetto di tegole e canne, e con qualche buchetto qua e là per non
dimenticare che siamo nati sotto il cielo liberi e spogli.
In casa Laudani per essere esatti mancava la vecchietta
vedova e paralitica, i loro genitori erano ancora piuttosto giovani e forti,
ma le galline erano cinque, il numero dei figliuoli concordava con il modello
riferito e il mulo, come abbiamo detto, stava al suo posto. E dire che
c’erano famiglie allora che stavano assai peggio, e i Laudani potevano
ritenersi fortunati perché una casa, loro, ce l’avevano.
Comunque, dopo la nascita del primo marmocchio, Alfio e Fina
ebbero altri tre bimbi, quasi uno dopo l’altro che sembravano gemelli, tanto
poco differivano d’età.
Li aveva voluti la provvidenza, dicevano per giustificare il
loro operato, e ad uno ad uno li aveva portati in casa la cicogna.
Ah, quella maledetta spennacchiata ogni volta. Quando si
decideva a fare un viaggio e aveva trovato la porta di casa chiusa con la
sbarra, senza pensarci due volte
aveva fatto un buco nel soffitto per passarci lei e il pargoletto che teneva
sospeso con il becco. I bambini piccoli ci credevano a questa favoletta che
però non mitigava né il freddo né il caldo che entrava da quell’enorme
pertugio sul tetto, ma pure i genitori a furia di raccontarla s’erano
convinti che la colpa l’aveva davvero la cicogna, e non solo per il tetto.
Così, le povere galline tutte le notti vedevano le stelle
che brillavano sopra le loro teste esposte al cielo, e quando era nuvolo e
pioveva si disponevano una sopra l’altra e si alternavano, dandosi il cambio
per bagnarsi a vicenda.
A quel punto, il troppo era troppo veramente, e prima o poi
si doveva pure fare qualcosa per adeguare quella casa ai bisogni di chi doveva
starci dentro, magari era opportuno trovare una sistemazione più decente per
quelle povere galline che non potevano lagnarsi dal momento che non potevano
parlare. Gli altri inquilini, a limite, si lamentavano parecchio, ma potevano
aspettare, e stavano con la testa asciutta soprattutto, sotto le coperte
ognuno aveva il proprio cantuccio sistemato.
Ma, in una notte d’inverno, dopo che erano state messe da
parte le preoccupazioni procurate dalla vita quotidiana e il sonno dei giusti
cercava di acquietare le inutili ribellioni alle ingiustizie di questo mondo,
nella casa al pianterreno col tetto bucato dalla cicogna, la notte non avrebbe
portato quella serenità tanto attesa e il dolce sonno sarebbe stato turbato
da un evento assai terrificante e davvero singolare.
Poco dopo la mezzanotte sembrò che all’interno
dell’umile casetta ci si fosse infilato il diavolo in persona e, forse quel
dannato era passato proprio dal buco sul soffitto. Soltanto lui, il maligno, a
quell’ora della notte poteva ingarbugliare il sonno e la serenità della
povera gente che forse, già sognava.
Urla disumane, pianto e disperazione si udirono venir da
quella casa piccolina, e dall'esterno non si capiva un bel niente di ciò che
capitava dentro quelle mura. L’uomo di casa gridava come un pazzo forsennato
e strepitava bestemmie inaudite. Il mulo ragliava, preciso come suo padre, e
tirava calci come gli era d’obbligo fare.
Nella piccola viuzza addormentata si udivano tremendi
lamenti di donna e pianti incontenibili di bambini torturati a morte. Fuori,
per strada, il cielo si era coperto di nuvoli che minacciavano
pioggia a catinelle e il buio s’era fatto fitto fitto che quasi si
poteva tagliare con un coltello, come il pane. La luce dei lampioni a gas non
esisteva ancora e le poche lucerne ad olio si erano spente dopo l’ultima
messa delle nove, quando la campana dei Tre Santi aveva dato gli ultimi
rintocchi della sera.
I cani della notte, fino a quel momento, avevano dormito fin
troppo pacifici e un silenzio sovrano aveva operato per sostenere il sonno di
tutta la brava gente che durante il giorno aveva faticato.
Se non altro, fu proprio l’occasione di tanta quiete, e
per fortuna alle prime grida i vicini di casa si svegliarono in coro e,
all’istante, accorsero in aiuto a quei poveri infelici colpiti sicuramente
da una tremenda sciagura.
Si capì subito che in quella casa doveva esserci qualcuno
deciso a fare una strage di quei poveri innocenti che teneva in ostaggio. E
chi, se non compare Alfio, il capofamiglia? Solo lui, in quella notte presaga,
avrebbe potuto abbandonarsi nella tremenda follia che gli agitava l’anima e,
pertanto, in un raptus della mente avrebbe ordito il massacro della sua
famiglia e le sevizie della sua stessa carne.
E quella fu una convinzione unanime che correva di bocca in
bocca già ai primi lamenti che si erano uditi: "compare Alfio è uscito
pazzo! Vuole ammazzare a tutti!" – così dicevano i vicini tra loro, e
si facevano coraggio l'uno con l'altro per cercare di risolvere la questione
come meglio si poteva, senza rischiare nulla per carità, la prima cosa era
quella di salvaguardasi la salute e l’incolumità della persona.
Intanto, gli uomini più coraggiosi avevano iniziato a
battere con i pugni sulla porta sprangata, tenendosi pronti a ripiegare
immediatamente se la questione avesse preso una piega difficile.
All'interno della casa, però, nessuno rispondeva ai
richiami dei soccorritori sempre più allarmati, e i buon vicini tremavano e
scalpitavano davanti alla casa buia che, così com’era, con quell’aura
d’inquietudine e di carneficina che le stava addosso e che veniva fuori
dalle brecce sui muri, metteva davvero molta paura.
Allora, i pugni degli uomini si rafforzarono di più sulla
porta che ostinatamente resisteva all’assalto anche se veniva aggredita da
calci e da spallate piuttosto decise.
Alla fine ci riuscirono a scardinare quella portaccia
vecchia e consunta, che a onore del vero, anche una folata di vento, ma che
dico, un respiro più forte sarebbe bastato a buttarla giù. Ma,
evidentemente, la paura fa davvero “novanta”, e aveva fiaccato le forze di
quegli uomini massicci che erano abituati a ben altre fatiche.
Ad entrare per prime nell’infelice dimora furono le donne
naturalmente, con i lumi e le candele in mano per farsi un po’ di chiaro in
mezzo a quelle tenebre che spargevano timore e che potevano celare
pericolosissime insidie.
Ah, che notte tremenda quella notte
d’inverno che la pioggia aveva imbruttito fino al limite dell’incubo
orrendo, e che orribile visione si prospettò davanti agli occhi sbalorditi
delle impavide soccorritrici.
Poco prima, la luce delle lanterne era andata
ed era ritornata a proprio piacimento nella piccola via troppo buia e sommersa
dalle case, e sopra ogni muro si erano stampate delle strane ombre trepidanti,
come sagome scure e inquiete che a lungo avevano fluttuato proprio là,
sulle pareti bianche di calce, suscitando non poche palpitazioni.
I fantasmi della notte si erano rincorsi fin sopra i tetti
più alti delle case e poi si erano nascosti dietro gli angoli dei vecchi muri
di tufo, mentre l’agitazione di tutti si accresceva. E tutti li avevano
visti gli spettri delle tenebre e ognuno aveva riconosciuto in quelle forme
eteree la propria buonanima che voleva presagire gli eventi più infausti e
cercava di farli mollare ad ogni costo. Ogni ombra in quell’ora di rovina
era un’anima che ognuno aveva riconosciuto e che era venuta dall’altro
mondo per ammonirli a farsi i fatti propri.
Eppure, l’evento era troppo straordinario e inconsueto per
potersi sottrarre, o magari nascondersi dietro le finestre delle proprie case
per stare a spiare e ad aspettare che gli altri – sempre gli altri - per
primi facessero qualcosa. Invece, in quella circostanza, tutti i bravi vicini
erano presenti, anche quelli che avevano avuto dei dissapori con la famiglia
disgraziata. Le piccole liti che il tempo aveva mutato persino in profondi
rancori, pressoché insanabili, erano svanite come per incanto. Dunque, quale
occasione migliore della disgrazia altrui per dissipare le vecchie ruggini e
le inutili discordie che resistevano ancora nel cuore di qualche vicino più
arrabbiato?
Finalmente, quando una di quelle donne
coraggiose entrò in casa e la propria lanterna schiarì l’ambiente che le
stava davanti, mancò poco che svenisse: era un quadro orribile quello che le
si mostrò, addirittura terrificante!
Ai piedi del letto grande c'era un giaciglio con due bimbi
che poco avevano di umano e che sembravano sistemati peggio delle figure di
"Guernica". Poco o nulla s’intuiva delle loro sembianze, e
talmente erano imbrattati di pece che l'uno scivolava sull'altro senza potersi
alzare, e insieme piangevano e si aggrappavano qua e là, dove potevano poveri
figli, ora ai capelli e poi alle vesti che riuscivano ad agguantare.
Dell’unica figlia femmina di casa Laudani però non
c’era traccia.
Ma, qualcosa si muoveva ai piedi del letto, e da un
groviglio di torva fanghiglia che sembrava animata da un tenue sussulto, si
incominciò ad intuire la presenza di un esserino che si torceva tra le
coperte e il crine dei materassi che,oramai, ne era uscito fuori.
La stanza era stracolma di un fetore nauseabondo e la povera
donna Fina si intuiva che si era trascinata verso la porta d’ingresso,
cercando una via di scampo. Adesso stava con le spalle per terra e poggiava i
piedi al resto di un vecchio canterano completamente distrutto. Tra le braccia
teneva il piccolo Giovannino e lo stringeva al petto per proteggerlo da
qualcosa di orribile che li aveva assaliti in quella notte sciagurata. Tutti e
due, madre e figlio, erano completamente sbrindellati nelle loro vesti ed
ovunque i loro corpi si trovavano segnati da immonde stille di merda.
Compare Alfio era in fondo allo stanzone, in piedi
poveretto, stava lì e teneva un bastone nelle mani che ritmicamente, senza
alcuna forza oramai, calava sulla schiena del mulo che scalciava.
Teneva la bocca aperta il poveruomo e la lingua gli pendeva
da un lato della bocca, come un cirneco ansimante, dopo una lunga corsa
appresso ad un coniglio selvatico.
- E dai! E tieni! E Prendi! - Giù legnate di malo cristiano
sul groppone di quella bestiaccia immonda, e ad ogni colpo il mulo sbuffava,
nitriva, ragliava e tirava calci all'orbigna, dove gli capitava.
"Compare Alfio, le mutande…!" –
gridò una di quelle povere donne del soccorso, sicuramente la più attenta
alle nude vergogne del poveretto stremato dalla fatica.
E le mutande erano venute giù per davvero con tutto quel
movimento di braccia e di gambe, in mezzo a quell’inferno di cacca di mulo
che aveva inondato ogni angolo della piccola casa terragna.
Compare Alfio alle grida della donna, troppo spropositate e
insopportabili per qualsiasi orecchio, si fermò per un momento con le braccia
alzate che tenevano ancora il bastone sollevato, sospeso a mezz’aria come se
le membra sfinite aspettassero un ulteriore consenso per calarlo nuovamente
sulla schiena del mulo, ma quel consenso, purtroppo, tardava a venire.
L’uomo, resosi conto della sua incertezza, piano piano
abbassò il proprio sguardo da profeta inorridito verso le "nobili"
parti basse che gli ciondolavano arrendevoli e svogliate, e il mulo che lì
per lì s’aspettava l'ennesima percossa, gli sferrò un calcio, ma un
calcio, che il povero don Alfio incominciò a vedere chiaramente tutto il
firmamento che nostro Signore ha creato.
Ad uno ad uno, l’infelice dovette
distinguere e contare ogni astro splendente che gli si muoveva intorno a
velocità vertiginosa e nonostante il dolore, si notava che era estasiato da
quella visione, quasi che con le mani riuscisse a palpare la luce intensa di
quell’inatteso incantesimo.
Tante piccole stelle radiose gli dovevano venire incontro,
come minuscoli soli accecanti, come lune e pianeti fluttuanti in un cielo
immobile e terso, assieme a tante altre palle e palline luccicanti che, nel
frattempo, gli fecero ricordare le sue di palle, che gli dolevano
maledettamente.