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- Seconda lirica: Lu
Pisaturi
- <Nomu del Patri>,ca ju càcciu e cantu,
/ <...di lu Figghiu...>,muredda e tu
mirrina, / e ccu l’ajutu du <Spiritu Santu>,
/ a chisti gregni sdàtici la schina; /
e <cusì sia>,stinnìtici lu
mantu, / ca pronta è la
tradenti e,mentri mina, / sfamu l’umanitati e n’haju
vantu, / ca spagghiu e ‘nzaccu lèvitu e farina.’
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- EUTIMO E LA LENTINITA' A cura di Gianni Cannone
(Notizia 1997)
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- Questo valoroso comandante della cavalleria
leontina di Iceta, ammirato da Plutarco, viene condannato a morte
dall'arroganza di Timoleonte, perché si era permesso, a difesa della
Patria, citando alcuni versi della Medea di Euripide, di usarli, a
giudizio degli abitanti della madrepatria di Siracusa, come momento di
scherno contro i Corinti. Al tempo di Dionigi
il giovane, i Siracusani, costernati per la perdita della libertà, si rivolgono a Iceta, tiranno di Lentini, e chiedono protezione.
Iceta da Lentini (a titolo di cronaca c’è oggi nella nostra città una
via Iceta) non si fa assolutamente pregare e, accogliendo senza riserve l’invito pressante dei
Siracusani,si pone subito al centro dell’attenzione,
in
Sicilia e fuori della Sicilia, come l’anti-Dionigi. Il Leontino cerca segretamente
di allearsi con Cartagine,ma sa anche,nello stesso
tempo, perfettamente bene, che se vuole effettivamente avere
Siracusa non può più correre il rischio
di rompere apertamente
con i Greci di Corinto.Un grande movimento di navi cartaginesi
attorno all’isola allarma,
però, i Siracusani che stimano urgente chiedere l’aiuto di Corinto.
Iceta, trovandosi spiazzato da questa iniziativa
imprevista e imprevedibile, fa allora buon viso a
cattivo gioco, ma partecipa ugualmente,
suo
malgrado, con amici fidati, alla missione esplorativa, convinto com’è
che i Corinti, una volta negata ai Siracusani l’assistenza, gli avrebbero spianato
automaticamente la strada per
impegnare ufficialmente i Cartaginesi nella lotta contro i Siracusani o contro
Dionigi. In una lettera, ormai famosa, fatta pervenire a Corinto, Iceta
consigliava, fra l’altro, ai Corinti di lasciare perdere qualsiasi idea
di organizzare ancore spedizioni militari in Sicilia in quanto egli,con
l’ausilio dei soli
Cartaginesi, stava
già provvedendo a liberare Siracusa e la Sicilia dalla tirannide
di Dionigi. Scoperto anzitempo il gioco del tiranno di Lentini, a Corinto
si decide di nominare celermente, quale generale supremo della spedizione,
Timoleonte. Nel 345 a.C. Timoleonte, avendo con sé dieci navigli ben
assortiti, parte per liberare Siracusa, colonia corinzia. Timoleonte sbarca
a Reggio da dove apprende che Siracusa era già nelle mani di Iceta.
Apprende, altresì, il Corinzio che Dionigi si era rifugiato
precipitosamente nella
cittadella dalla quale si accingeva a governare
le sue ultime illusioni. Timoleonte, nonostante le numerose avversità, oltrepassa lo Stretto e, dopo alterne
vicende, libera definitivamente Siracusa dalla dittatura
di Dionigi II. Debellati, infine, a Cremiso anche
i Cartaginesi, Timoleonte riserva l’ultimo
capitolo a Iceta da Lentini. Il tiranno, infatti, è arroccato a Lentini
e, fra l’altro, non ha alcuna intenzione di cedere il potere. Ma la storia
a favore della democrazia e della libertà è in ogni tempo
inarrestabile. Marcia così il Corinzio verso Lentini, espugna la città e
poi si fa consegnare vivi dal popolo leontino sia Iceta che il di lui
figlio Eupolemo. Padre e figlio vengono condannati a morte senza pietà da
Timoleonte.Anche al valoroso comandante della cavalleria
leontina, Eutimo, tocca la stessa sorte.Sentiamo come. Eutimo,dunque,durante
una affollatissima assemblea tenutasi a Lentini,si era permesso, citando
alcune parole prese dalla Medea di Euripide, di usarle come momento di
scherno contro i Corinti. Il fatto è documentato
da Plutarco: << Eutimo,
benchè fosse un combattente leale e di
eccezionale coraggio, non trovò compassione a causa di un insulto
che lo si accusò di aver commesso contro i Corinti: si narra che quando i
Corinti decisero la spedizione contro i tiranni, Eutimo in un discorso che
fece davanti al popolo di Leontìnoi
disse che non c’era da spaventarsi
né da sgomentarsi se donne corintie
uscirono di
casa>>. Eutimo, praticamente, pagò con la vita la difesa della
LENTINITA’. Forse se fosse stato meno valoroso,se non fosse
stato un valente
generale, se non fosse stato
così sfortunato, se non avesse conosciuto quei versi di Euripide , figlio eccelso
della Sofistica gorgiana, sicuramente Plutarco non l’avrebbe preso nemmeno in
considerazione. Ma la vera Lentini può ignorare sempre tanta autentica
grandezza?
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- LENTINI, SIRACUSA e GLI ARABI A cura di Gianni Cannone (Notizia 1997)
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- In queste
ore, alla vigilia delle votazioni amministrative (30 novembre
1997), i sentimenti di smarrimento e di speranza, per questa nobile città
di Lentini, costantemente “degradata”, ma fortunatamente mai
irrimediabilmente perduta, si susseguono a ritmi vertiginosi. Per il
ritorno di Lentini agli antichi splendori in tanti ci troviamo ad essere
debitori.
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- 827 dopo Cristo : è il momento della calata
musulmana in Sicilia, a spese del dominio bizantino. Tutte le città
cadono puntuali, di volta in volta, sotto
i colpi degli Arabi conquistatori. Spunta, allora, il giorno dell’Islam
nella Sicilia per conquista mirata e ricercata. Come fu presa Lentini ?
All’interno della “Storia
dei Musulmani in Sicilia” di Michele Amari , c’è nitida la fotografia
dell’assedio e della tragicomica resa di Lentini mediante il ricorso di
uno stratagemma tanto vero quanto infelice
per i
Lentinesi: “Andato all’assedio di Lentini,antica e notissima città,il
vincitore di Messina che li
capitanava, trovò modo di terminar presto l’impresa. Risapendo che i
cittadini avevan chiesto soccorso al patrizio il quale si chiudeva con le
genti entro Siracusa e Castrogiovanni, e che quegli aveva concertato con
loro un doppio assalto per prendere in mezzo i Musulmani, al-Fadl ritorse
lo stratagemma contro il
nemico. Mandato ad accendere il fuoco per tre notti sopra un monte a vista
della città, chè tal era il segnale ordinato dal patrizio, il capitano al
quarto dì lascia poche genti sotto Lentini; pone le altre in agguato; e
commette alle prime che alla sortita dei cittadini facciano sembiante di fuggire verso
l’agguato. E al
quarto dì i Lentinesi,
armatisi popolarmente per andare a sicura vittoria, la credettero
guadagnata ad un soffio, quando videro i Musulmani volger le spalle: onde
tutti si posero ad inseguirli; nè rimase in città uom che potesse
combatter bene o male. Trapassato il luogo delle insidie, i
fuggenti rifan la testa; le altre schiere avviluppano i Cristiani;
li mettono al taglio della spada: e pochissimi ne camparono in città.
Pertanto questa si arrese”. In Sicilia,però, la preda che fa più gola
è Siracusa, la città più famosa dell’isola,che è costretta, a sua
volta, a subire,da parte maomettana, una terrificante devastazione.
E’ il monaco Teodosio, infatti, che,prigioniero a Siracusa,
racconta attimo per attimo le giornate terribili del massacro, delle
violenze e delle spoliazioni all’interno della città. La povera
Siracusa, vittima di questa ennesima persecuzione e di questa incredibile
carneficina, viene espugnata nell’anno 878 d. C.
Il racconto,sempre dell’Amari, storico siciliano fra i più
grandi e arabista di sommo grado, non fa altro che ripetere il pietoso
ritornello di una Siracusa sfigurata nel volto, nel corpo e nell’anima:
“Il numero dei morti in tutte queste carneficine passò i quattromila,
dice Ibn al-Atir, aggiungendo che pochi, pochissimi camparo... Montò il
valsente del bottino, secondo Teodosio, a un milione di bizantini che ne
darebbero tredici delle nostre lire; nè par troppo per tanta città; nè
arriva a quello che crederebbesi, leggendo negli annali musulmani non
essersi mai fatta sì ricca preda in altra metropoli di Cristianità...
Per due mesi circa abbatterono fortificazioni, spogliarono tempii e case:
alfine vi messer fuoco, e andar via all’entrare di agosto: questo fu il
fine di Siracusa antica: rimese un labirinto di rovine,senz’anima
vivente”. Di fronte a questo scenario ossessivo di rovine e di
distruzione, si esaurisce tristemente anche il ciclo storico
dell’egemonia politica e culturale di Siracusa antica nel mondo. Gli
Arabi dividono la Sicilia in Val di Noto, Val Demone e Val di Mazara e,
nello stesso tempo, trasportano la capitale e gli interessi
socio-economico-politici da Siracusa a Palermo. Normanni, Svevi, Angioini,
Aragonesi, eccetera, eccetera, non sono più in grado di restituire a
Siracusa il riconoscimento dell’antica dignità greca. L’illusoria
fase della Camera Reginale, di cui anche Lentini ne fa parte integrante,
richiama alla mente un aspetto “frivolo” di vita associativa
particolare; non proteso, però, verso un dopo seriamente programmato. Gli
Arabi, che chiudono il loro ciclo di dominatori della Sicilia nel 1040,
introdussero nell’isola, fra l’altro, anche la colivazione degli
agrumi. In queste ore, alla vigilia delle votazioni del Consiglio Comunale
(30 novembre 1997), dell’avvento della
nuova Giunta
e dell’elezioni del Sindaco, i sentimenti di smarrimento e di
speranza per questa Lentini costantemente
“degradata”, ma
fortunatamente mai irrimediabilmente perduta, si susseguono a ritmi
vertiginosi. Una verità,comunque, appare
a tutto tondo senza fiato: per il ritorno di Lentini all’antico
splendore in tanti
ci troviamo ad essere debitori. Stesso discorso vale per Siracusa.
Difatti una classe dirigente
che non sia impregnata di “siracusanità” e di “lentinità” non
merita minimamente di essere tenuta in considerazione, sia a Siracusa che
a Lentini. L’appello alla ricerca vera di una
“Voluntas Syracusanorum” da
una parte e
di una
“Voluntas Leontinorum” dall’altra, non può costituire,in
ogni modo, sempre e solamente un grido.
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- RICCARDO DA LENTINI
(La Notizia 1997- di Gianni Cannone)
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- Nella storia dei castelli svevi un posto di
rilievo assoluto spetta, senza dubbio alcuno, all’architetto federiciano
Riccardo da Lentini. Durante il regno di Federico II di Svevia, infatti, l’autorità,
il prestigio e la stabilità dello Stato si
reggevano,principalmente,attraverso una politica militare che, alla fine, si
concretizzava nell’arte della costruzione di fortezze robusta,
sicure,imprendibili. Vengono indicati i castelli federiciani come
pupille dell’architettura militare sveva essendo di vitale importanza
questo tipo di edilizia ai fini della sicurezza regnicola. Le fortificazioni
militari di rifacimento o di
nuova costruzione si svilupparono, dunque, in stretta connessione con la
difesa del regno federiciano ed ebbero, appunto,come architetto di corte
proprio il lentinese Riccardo. Nel territorio federiciano Federico II
compie, dal 1220 al 1250, delle cose davvero portentose. Accanto ai castelli
programmati per essere distrutti, trasformati o restaurati il grande svevo,
stupor mundi, conduce l’impresa audace,accorta e superba di favorire, con
forte passione e raziocinio, anche la costruzione dei cosiddetti novorum
aedificiorum. Tutte queste costruzioni, che pare fossero oltre duecento tra
civili e militari, furono giudicate, in quel tempo, quasi una corsa sostenuta a
ritmo vertiginoso contro il tempo.. Restano famose, a tal proposito, le parole
che il giustiziere Tommaso da Gaeta, un vecchio e fedele funzionario
federiciano, rivolge al suo indomabile e instancabile imperatore: ...per
l’amor del cielo Maestà, concedetevi una tregua,procuratevi che gli
edifici del vostro regno non sorgano tutti in una volta ! Dedicatevi prima
di ogni altra cosa ad un’opera di bene, accetta a Dio come fecero i
cristianissimi re di Sicilia vostri antenati, i quali costruirono chiese e
monasteri anche tra i turbini delle vicende di guerra. La grande basilica
del Murgo,in tal senso, fu l’unico esempio di monumento sacro che tuttora
rimane in piedi e può considerarsi, fra l’altro,una rarità,una
vera e propria mosca bianca. E’ notorio, altresì, che nell’anno
1224,Federico II abbia dato disposizione
di edificare nel territorio di Lentini,oggi territorio storico, e
precisamente nei pressi di Agnone Bagni, una chiesa cistercense, denominata
basilica del Murgo, che, però, non venne mai portata a termine. Il clan
dei lentinesi, tanto per capirci, sotto l’era di Federico II
comprendeva,oltre ai nomi famosi e prestigiosi del Notaro Jacopo da Lentini
e dell’altro poeta lentinese
della Scuola Siciliana, Arrigo Testa, anche e soprattutto quello di Riccardo
da Lentini. Ma quale il valore di Riccardo da Lentini ? A questo interrogativo risponde,intanto, Castel del Monte,da
tutti ammirato recentemente grazie al film
Il nome della rosa. Castel del Monte,dunque, vertice della creatività
architettonica, può essere guardato indistintamente da Canosa
o da Andria. Ebbene, il diadema d’Apulia, il
vertice della creatività architettonica profana medioevale, porta la
firma dell’architetto Riccardo da Lentini, meglio conosciuto da tutti come
praepositus aedificiorum. Il professore
Enzo Maganuco,a tal uopo,in un suo saggio su Riccardo da Lentini dice
testualmente queste cose: L’architetto leontino
muta stile con padronanza da dominatore a seconda della destinazione
dell’opera. A nessuno sfugge,
infatti, come nel Castello Ursino di
Catania, destinato sulla roccia
specchiantesi nel mare
- prima che la colata lavica del 1699 lo circondasse
e solidificandosi a
contatto dell’acqua lo
allontanasse dal porto dal
quale era stato eretto a
difensore - le decorazioni e
tutto l’apparato ornativo sia
ridotto a zero, badando l’artista
alla funzione difensiva e perciò ad una struttura potente e massiccia, pur
elegante, però, nella sua secca snellezza e nella severità della teoria dei
torrioni angolari e delle
torrette mediane. Ben altra attività creativa egli dispiega a Castel del
Monte dove invece la destinazione a luogo di delizia, di caccia e di riposo
permette all’artista risoluzioni estetiche
mirabili. Riccardo fu, si può ben dire, non solo l’amico e il
funzionario fedele solerte e preparato, ma addirittura il vero Ministro dei
Lavori Pubblici di quel mondo. Vedere, quindi i castelli di Catania, di
Siracusa (detto erroneamente Maniace), e di Augusta che suno gli unici in
Sicilia che il destino ha voluto che si
salvassero dalla crudeltà del tempo e degli uomini,
significa soprattutto
non essere estranei
spiritualmente a
quell’arte architettonica; significa altresì, poter rivivere quella realtà
culturale e sociale con la stessa intensità e fantasia di allora. Avere
sotto gli occhi la torre ottagonale di Enna è poi come scrivere una frase
molto elevata. Tra la torre di
di Enna e Castel del Monte si scoprono, inoltre,identità e parentele che,
senza la mano comune di Riccardo, sarebbe stato impensabile che le due
meraviglie fossero venute spontaneamente o facilmente alla luce, nel segno
di una luminosa e perenne musicalità. Il mondo architettonico federiciano
trova così, nel genio sublime e artistico del lentinese Riccardo, il suo
eterno profeta.
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- (G.C.) - Durante la
stesura del mio libro
SICILIANITA’, il
pittore Franco Condorelli, con il pennello
sempre intonato alle esigenze
della sua fantasia e della sua
tormentata libertà
spirituale, ha scritto, disegnando a modo suo, cioè
alla grande, alcune sequenze della
mia narrazione storico-letteraria. Tra queste c’è Castel del Monte : un
disegno artisticamente pregevole che
tocca specificamente la tematica del saggio "Riccardo architetto e i castelli
federiciani". Cosa aggiungere? Franco Condorelli, artista vero e pittore
di razza, una verità inconfutabile ha sempre chiara e possente
dentro il sangue: la Lentinità. Ma le ontologie
totalizzanti di un potere malato, anzi "cadaverico",
potranno mai interpretare la catarsi ?
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- SEBASTIANO AMORE
E’ SEMPRE CON NOI
di Gianni
Cannone (La
Notizia n.33-1999)
-
Perché voglio
ricordare Sebastiano Amore ? Non c’è una ricorrenza particolare da
motivare, non ci sono date di nascita e di morte da disciplinare. E allora?
Intanto questo: Sebastiano Amore come mia tendenza unilaterale per non
dimenticare. Mettiamola pure così. E poi rammentare la presenza di un uomo
e di un personaggio del valore
di Sebastiano Amore
che a Lentini ha
lasciato ricordi incancellabili è cosa, certamente, che può fare soltanto
piacere. Specie se nessuno te lo chiede. E ciò è ancora più bello. Una
“LIBRERIA AMORE” a Lentini
gestita ora, brillantemente, dai tre figli Pippo, Franco e Marcello parla
chiaro da sola. Ma quel tempo fu, per l’indimenticabile amico Sebastiano
Amore, una scommessa e una sfida. Sicuramente
un atto di coraggio assoluto.
Il perchè è presto detto. Sebastiano Amore, infatti, per siffatta attività commerciale, che tuttora può considerarsi, a
Lentini, una vera e
propria istituzione
socio-culturale, diede le
dimissioni dal Consorzio di
Bonifica “Lago di Lentini”. Lasciò anche il giornalismo (Egli era il vice
corrispondente de “Il Corriere di Sicilia” di Catania e il
corrispondente del settimanale “Sport
Sud” di Napoli). LA NOTIZIA, in questo numero, ripropone, a
testimonianza che i figli migliori
di Lentini sono sempre vivi a prescindere, la riproduzione di un pezzo di Sebastiano
Amore, pubblicato ne “Il
Corriere di Sicilia” di Catania
in data 9 maggio 1956. (g.c.)
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- IL
TERREMOTO DI S.LUCIA (13 dicembre 1990)
- Nella notte del 13 dicembre del 1990,
ricorrenza della festa di S.Lucia, alle ore 1,24 la Sicilia Sud-Orientale
fu’ investita da una forte scossa di terremoto (7° grado della scala
Mercalli). L’epicentro fu localizzato nella zona antistante la baia di
Brucoli. Molti ricorderanno ancora come le proprie abitazioni, per 45
interminabili secondi, rimasero in balia di un pauroso fremito. Tutti,
in pochi minuti, si riversarono nelle strade e al buio (nel frattempo
era saltata l’energia elettrica) cercarono riparo nelle auto o nelle
piazze, lontano comunque da edifici o costruzioni. Tre secoli dopo
tornava a tremare la terra. I dati offerti dalla protezione civile a 24
ore dal sisma furono drammatici: 12 i morti, 200 i feriti, 2000 i
senzatetto. A Carlentini, che risulto’ il centro piu’ colpito,
crollarono 3 case; due di esse, sbriciolandosi, seppellirono sotto le
macerie 4 famiglie. Carlentini, il giorno dopo, sembrava un campo di
battaglia: tra le macerie si prodigavano decine di soccorritori
provenienti anche dalla vicina Lentini. Squadre dell’esercito
montarono una tendopoli al campo sportivo per dare i primi soccorsi. Le
vittime del terremoto furono sorprese nel sonno e recuperate tra le
macerie di via De Amicis e Corsica. Si salvo’ solo Rosario Musumeci di
6 anni. Il povero bambino in una notte perse il padre, la mamma e la
sorellina. In via Corsica abitavano 3 famiglie; la piu’ numerosa,
quella di Agrippino Cardillo subi’ la perdita della moglie e delle due
figlie Loredana di 21 anni e Antonella di 23: Morirono anche i 2 figli
di Antonella, Antonio di 4 anni e Roberta di 1 anno e mezzo. In via
Corsica viveva anche Santo Furnari di 28 anni e la moglie Carmela Vitale
di 25. La coppia aveva 2 figli, che per fortuna quella notte dormivano
dai nonni. Santo Furnari nel corso del terremoto protesse la moglie col
proprio corpo, salvandolo ma egli venne trovato morto. Questi furono gli
aspetti piu’ terrificanti della tragedia. A Carlentini, I quartieri
piu’ colpiti furono quelli dell’ex lavatoio e della fiera. In tutta
la zona molte furono le case lesionate. Molti senzatetto furono
ricoverati presso amici e parenti o dentro le tendopoli, che furono
subito installate nei campi sportivi. Edifici pubblici, come le scuole,
furono attrezzati ad accogliere provvisoriamente i terremotati. Undici
ore dopo il sisma una unita’ mobile dell’esercito, dotata di cucina
da campo, fu in grado di preparare 1000 pasti. Due cani pastori tedeschi
fecero miracoli, aiutando i soccorritori a trovare persone ancora in
vita sotto le macerie o a localizzare i cadaveri. La notizia del
terremoto, in poche ore, fece il giro del mondo. Saltate le linee
telefoniche, grazie ai radioamatori locali, fu possibile lanciare
richieste di aiuto. Ci fu tanto caos per le ristrettezze delle vie di
fuga. Da ogni angolo del globo arrivarono telefonate di incoraggiamento
e di solidarieta’.
- N.B.: Il rischio di un terremoto, come quello
verificatosi nel 1990, e’ sempre presente nella nostra zona
considerata ad alto rischio sismico. Chi volesse approfondire l'argomento
puo' trovare notizie nei nostri link nella
sezione "Sicilia".
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- FRANCESCO MARINO
- 1923: Una battaglia
contro il latifondo Leontino
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- Un governo che non sa o non vuole
ascoltarci ha poco da promettere al Mezzogiorno d’Italia” (F. Marino
- “Una battaglia contro il latifondo Leontino” 1923). Parole
valide ancora oggi, solo che nel 1923 Francesco Marino che guidò una
delegazione di contadini a Roma, ebbe il coraggio (lui antifascista e
perseguitato politico) di dirle personalmente a Mussolini e al Ministero
dell’Agricoltura Corbino, ottenendo quel che chiedeva: che non
venissero revocate le concessioni temporanee di terre incolte alle
cooperative, altrimenti sarebbe tornata la miseria in mezza provincia di
Siracusa. Nel 1920, infatti, nel territorio di Lentini, Carlentini,
Francofonte, Scordia e Pedagaggi, trentamila reduci di guerra
aspettavano la terra che era stata loro promessa nel momento della paura
e del disastro di Caporetto. Il territorio
di Lentini, che pur era il più ricco della zona, con i suoi
6.000 giornatai che per metà restavano disoccupati, e con le ondate
periodiche di manodopera “dei contadini di Vizzini, Ferla, Modica,
Militello, dove la giornata è di 5 lire al giorno quando si lavora”,
era un “rigurgito di pezzenti” che si ingaggiavano a 7 lire al
giorno e che lavoravano circa quattro mesi l’anno. Più della metà
del territorio di Lentini era nelle mani di sedici famiglie che
imponevano le loro condizioni. Quasi tutti i latifondi, ad eccezione di
poche aziende coltivate ad agrumi con criteri moderni, rimanevano
incolti perché “i contadini non avevano convenienza ad accettarne la
concessione a causa delle pesanti condizioni imposte dai ricchi
proprietari terrieri” (Prof. S. Lupo - “Il giardino degli
aranci”). Lotte per l’imponibile di manodopera, rivendicazione di
un’attività meno provvisoria, occupazioni di terre incolte, richieste
di affitto a prezzi più equi, concessioni
temporanee a cooperative delle
terre malcoltivate (come prevedeva il decreto Visocchi, 2
settembre 1919), scontri sociali, riforma agraria. Queste le tappe che
scandiscono la storia di Lentini dall’inizio del Novecento al 1950.
Queste le tappe, spesso drammatiche, che disintegrano il latifondo e
portarono il benessere e lo sviluppo economico nella nostra città.
Protagonisti di questa storia (che le nuove generazioni non conoscono
perché non c’è la volontà di tramandarla), decisi e battaglieri,
Francesco Marino, Filadelfo Castro e “quei pezzenti” che li
seguirono. Non fu quindi “la rapidità e operatività che fece
raggiungere alla popolazione di questa zona traguardi di benessere che
difficilmente sono stati riscontrati di pari entità in altre zone del
Meridione d’Italia” come un giornalista disinformato ha scritto il 3
gennaio c.a. in un articolo sul giornale
“La Sicilia”, ma sacrificio di uomini che lottarono per
migliorare i loro destini e quelli dei loro figli. Non fu un miracolo
allora, non è per una “iattura che nel volgere di pochi anni tutto si
è capovolto” (come scrive lo stesso giornalista). Perché dar la
colpa dei nostri errori alla iattura? La verità è che non abbiamo
saputo gestire al meglio la nostra economia. Abbiamo affidato il nostro
destino a politici incapaci, ci siamo rammolliti nel benessere prima,
nelle elemosine dopo, nelle boccate di ossigeno oggi. In questi ultimi
anni molto si è parlato e si è scritto ma poco si è fatto nella
pratica. Oggi, che finalmente ci siamo resi conto che la nostra economia
è in ginocchio, lanciamo un S.O.S.. E’ vero che la storia non si
ripete, ma è anche vero che le combinazioni delle circostanze possono
creare delle analogie, e oggi come nel 1920 Lentini è ritornata a
essere il “rigurgito di pezzenti”. Non basta più un S.O.S. E’
necessario agire. Ma vi sono gli uomini capaci di battersi per il
benessere della Comunità? (P.M.T.)
La Notizia
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- “1920,
DUE DONNE UCCISE NELLA PIAZZA DI LENTINI” di
Pina Marino Tropiano
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- Nel 1920, pare che due donne, due
popolane, fossero state uccise nella piazza di Lentini. Di questo
episodio, di cui qualcuno ha vagamente sentito parlare nei racconti dei
propri genitori, ho trovato due testimonianze che discordano tra loro in
quanto quella storia in cui la Lentini dell’immediato dopoguerra fu
teatro di scontri sociali, anche violenti, viene raccontata in
un’ottica diametralmente opposta. Era il periodo in cui cominciava ad
affermarsi il movimento fascista, ma anche il periodo dell’ingresso
dei contadini nella lotta politica e sociale. “Terra, miglioramento
dei contratti d’affitto, aumento dei salari agricoli” era la loro
aspirazione. Ed ecco la prima testimonianza tratta da un libro, quasi un
diario, fra l’altro piacevole da leggere perchè è uno spaccato della
Lentini che “fu”, scritto dalla signora A.F., pubblicato nel 1976:
....Il popolo, in gran parte analfabeta, era formato da contadini,
giacchè il paese era eminentemente agricolo. Esso abitava a piano
terra, in case composte da una sola camera con una sola porta, simile ad
un altro, dove dormiva una numerosa famiglia e anche l’asino che,
costituendo il mezzo di lavoro,
era considerato un
componente della famiglia......All’altro estremo delle classi sociali
c’era la classe dei “nobili” o “cavallacci”, che vivevano in
un’atmosfera medioevale, giacchè erano proprietari di feudi. Essi
abitavano in case precedute da villette, con stanzoni..., saloni
, stemmi, armi, cimeli, pianoforti...Baroni, cavalieri,
baronesse, signorini conducevano la vita beata...La borghesia cercava di
imitare i nobili nel modo di vestire, di vivere.... La conquista
dell’amicizia con un nobile era la meta del borghese, il quale, quando
riusciva ad ottenerla, non faceva che dire: - mi trovavo con il
barone...(non è cambiato proprio niente!), con il sussiego di chi ha
raggiunto la più invidiabile delle posizioni... Nel 1920, una nuova
frase era sulla bocca di tutti: - Chi
non lavora, non mangia”. La frase era presa a base di una nuova
dottrina sociale, proveniente dalla Russia, fondata sul
materialismo....Lentini, paese preminentemente popolato da braccianti,
era facile ad essere persuaso alla nuova dottrina. Si tenevano comizi in
cui il numero dei partecipanti era imponente. Venivano in piazza i
propagandisti; tra essi una donna, Maria Giudica, accanitissima
sostenitrice della nuova legge sociale...Profetizzava l’uguaglianza
delle classi e che tutti sarebbero stati
bene...E, così s’inculcava veleno nell’animo, si esasperava
il povero invece di consolarlo, e si incitava all’odio invece che alla
sopportazione... In uno scontro con la polizia, una sera caddero due
donne, intervenute con falce e roncola nascoste sotto i grandi
grembiuloni, che usavano portare sulle gonne....” (Alcuni brani tratti
dal libro sig. A.F.). Dopo aver letto il libro, la signora M.C.,
indignata, inviò una lettera alla sig. A.F. “Gentile signora, nel suo
libro lei ha scritto tante .... Dopo tre anni di guerra, trentamila
contadini di Lentini e paesi circonvicini disoccupati, dovevano essere
consolati secondo i dettami di Gesù che, lei dice, predicava ai ricchi
carità e ai poveri pazienza. Quindi secondo lei, i contadini dovevano
essere aiutati a sopportare la miseria e a mangiare pane e cipolla,
dormire in una catapecchia assieme
al mulo o all’asino, mentre
i “cavallacci” facevano la bella vita, piuttosto che essere aiutati
nei loro sacrosanti diritti di essere umani, magari da Maria Giudice e
da altri, che in questa loro missione, proprio in quel periodo avevano
tutto da perdere, pur anche la vita, che da guadagnare.... Riguardo
all’uccisioe delle due donne nella piazza di Lentini, è falso quel
che lei ha scritto nel suo libro, cioè che portavano falce e roncole
sotto i grembiuloni (che non avevano), e non fu la polizia a sparare
sulla folla. Io allora avevo 15 anni ed ero a Lentini per le vacanze,
giacchè studiavo a Catania alle scuole Normali ed ero al Collegio Pio
IX in via S. Maddalena. A Lentini abitavo in via C. Alaimo e quella sera
d’estate, mentre passeggiavo con altre ragazze, mie amiche, per
prendere un poco d’aria nello spiazzo antistante la chiesa della S.S.
Trinità, abbiamo visto entrare nella scuola elementare Monastero,
comunemente chiamata Badia, molte persone fra le quali numerose donne,
spinte dalla curiosità di vedere e di ascoltare Maria Giudice. Anche
noi siamo entrate. Sono rimasta affascinata dal coraggio, dalla
franchezza e dalla passione delle sue idee. Finito il comizio, Francesco
Marino disse ai convenuti di andare a casa ognuno per conto proprio
e di evitare assembramenti. Le
persone che abitavano nelle vicinanze andarono subito a casa, mentre
quelle che abitavano a S. Paolo, sopra la Fiera e dalle parti della
Stazione, un folto gruppo, passando dalla piazza, furono aggrediti a
colpi di pistola sparati dall’alto dei padroni. Questa è la verità!”
(M.C.). Due donne colte, della stessa estrazione sociale, due
testimonianze e due modi diversi di vedere dello stesso periodo storico.
E mentre l’una considerava Maria Giudice una propagandista
rivoluzionaria, l’’altra invece, coraggiosa, combattente per il
riscatto dei lavoraori. Ma
cosa successe veramente 78 anni fa? Fu come abbiamo visto nei due
scritti, la polizia a sparare su dimostranti, o i reazionari su una
folla inerme, per paura della minaccia socialista? Ma furono veramente
uccise due donne? Chi erano? Perchè nessuno ne parla? Ancora oggi
qualcuno si interroga e interroga per saperne di più, ma come è noto
la storia di Lentini si è fermata a quella scritta da Pisano Baudo. La
storia socio economica, non solo quella politica, della Lentini dei
primi decenni del novecento, che portò a una grande mobilitazione
sociale, è infatti sconosciuta soprattutto dai giovani. Qualche giorni
fa è venuto a trovarmi un giovane lentinese (consigliato dal prof.
Mangiameli) per vedere se fra i documenti di mio padre, in mio possesso,
poteva trovare qualcosa che gli servisse per la sua tesi di laurea.
Consultando le carte ha esclamato: “Non avevo idea che Lentini avesse
avuto una storia così travagliata! Perchè nessuno ne parla? “Tante
risposte si sono affollate alla mia mente, ma poichè potevano sembrare
risposte di parte ho taciuto. Volendo ripetere una frase trita e
ritrita: “Un Paese deve conoscere il suo passato, senza storia,
infatti non c’è futuro”, lancio un appello: Perchè il Comune di
Lentini, anzichè finanziare pubblicazioni spesso inutili, non
si fa carico di scrivere la storia moderna della nostra Città,
affidandone la stesura ad uno staff di studiosi, in modo che ne venga
fuori una storia obiettiva? Pina
Marino Tropiano
-
-
- INDIZI CONCRETI
COLLOCHEREBBERO I LEONTINI FRA I POPOLI DEL MARE
- ANCHE L’ANTICA LEONTINI FRA LE
CITTA’ MARINARE?
-
- Il paradosso di Braudel. La costruzione
delle antiche navi. Le varie tipologie esistenti. Il
<<Titanic>> dell’antichità. La flotta Siracusana di
Dionisio. Per una politica economica e commerciale via mare
- <<... Tra i fiumi, il Lisso, da
identificare con l’analogo greco, ed il Carrunchio. Questi fiumi
costituivano le vie fluviali at-traverso le quali si svolgevano il
commercio, e le comunicazioni con il mare che facevano di Lentini
un’importante città marinaresca,
almeno fino
all’epoca medioevale e fino all’interramento, dovuto pro-babilmente
ai numerosi ter-remoti...>>.
(“La Sicilia”, 14.7.1998). Abbiamo tratto questo rilevante
passaggio da un in-tervento sul quotidiano più letto dell’isola, non
firmato, riferentesi a Lentini e titolato <<Il sottosuolo è ricco
di antichissimi cunicoli>>. Non siamo nè archeologi nè cultori
della storia di Lentini. Conoscere le passate vicissitudini della
propria città lo riteniamo, però, un dovere quasi civico. Per noi, quì
ed ora, conta poco o niente sapere una cosa che già conoscevamo.
Sappiamo, infatti, che Lentini, nel passato, è stata ricca di arterie
fluviali navigabili. Quello che ci induce ad una riflessione è, invece,
la domanda: fino a che punto i fiumi navigabili vennero sfruttati dai
Leontini per le loro co-municazioni commerciali esterne? E fino a che
punto possiamo in realtà affermare che Leontini rientri nel novero
delle “importanti città marinaresche”? E fino a che punto, posto
che questa sia una realtà accettabile, l’antica città abbia fatto
fronte al proprio sviluppo economico assecondando e sviluppando una
politica com-merciale ed anche militare di tipo marinaro? L’argomento,
non privo di fascino, apre le porte ad una analisi contestuale più
ampia ed approfondita. Cirino Gula nella sua “Storia di Leontinoi”
conforta la tendenza affermando che <<i fiumi sono importanti
anche come vie di trasporto ed in questo senso Leontini,
l’unica colonia
primaria lontana dal mare, era ben servita. All’epoca il Teria,
identificato col S. Leonardo, era navigabile per un buon tratto e la sua
foce doveva costituire un buon approdo per le navi...” In un nostro
lavoro su questo stesso periodico abbiamo spiegato come, secondo D.
musti, nella suddivisione da Egli proposta delle colonie greche in
“colonie agricole” e “a carattere commerciale”, Leontini
rientrasse fra le prime. E assume particolare importanza, a questo
punto, l’affermazione di Jean Hurè nella sua “Storia della
Sicilia” ove dice che “... così le vecchie colonie agrarie
diventarono ben presto importanti centri commerciali...” Gli elementi
e i presupposti, più che indizi, perché ci si possa persuadere dei
leonitin come “popolo del mare” ci sono. In più, concettualmente,
giunge il noto paradosso di Braudel espresso in <<Civiltà e
imperi del Me-diterraneo nell’Età di Filippo II°>> (Einaudi,
1986). Braudel afferma che nel Mediterraneo quasi tutti i popoli del
mare non erano costituiti da gente di mare. Ed è vero, in quanto nelle
coste mediterranee non insistevano popoli marinari in senso stretto. Si
guardino, come esempio illuminante, Atene, Corinto, Roma od Antiochia.
Città che non avevano sbocchi naturali a mare. Potenze, queste, che
concertatamente ad una politica commerciale ne adottavano una militare
meritandosi a pieno titolo l’appellativo di “popolo del mare”. Le
imbarcazioni come erano costituite? Esse consistevano di una chiglia a
fasciame lon-gitudinale con giunti a mortasa e la costruzione avveniva
attraverso un procedimento produttivo lento e molto costoso. I legni
migliori, considerati di ottima qualità, venivano reperiti generalmente
il Libano ed in zone particolari del medio Oriente. Ma solo Stati dotati
di notevole potenza economica potevano permettersi
flotte degne di questo nome. La stessa Atene nel 411 esaurì le
risorse per armare la propriaflotta e potrà far fronte all’emergenza
solo oberando i cittadini con tasse onerose ed impopolari. I commerci
via mare non parivano, comunque, gran-demente fruttuosi. In ogni caso,
giustificavano poco gli sforzi per affrontarli. C. R. Whittaker dà per
certo che “Gli scambi e i commerci lungo le coste del Mediterraneo non
erano soltanto pericolosi, ma anche poco interessanti dal punto di vista
economico... la maggior parte dei commerci si svolgevano su distante
brevi e non fruttavano grandi fortune; il costo della costruzione delle
imbarcazioni contribuiva a contenere sia le dimensioni delle navi sia il
volume degli affari...” In più si doveva far fronte alla crescente ed
impunita pirateria. Una costante storica era, inoltre, quella che le
città che poggiavano sulle flotte avevano vita breve (l’impero
Ateniese durò appena 60 anni). Le navi: la più diffusa è la trireme,
specie per il combattimento, cui seguì la polireme. Dionisio di
Siracusa costruì una grande flotta, di crica 300 navi, fra quadriremi e
quin-queremi. Limpero macedone le settiremi. Seguirono, nell’età
ellenistica, le 10 e le 30 per arrivare a quello che possiamo definire
il “Titanic”dell’antichità sotto Tolomeo IV Filopatore nel II°
secolo in Egitto. Il quale avrebbe fatto costruire una enorme nave di 40
remi, con 400 marinai, 4.000 rematori e 2.850 soldati: quasi 7.000
membri d’equipaggio. Massimamente, ciò non di meno, le navi, specie
ad uso commerciale, rimasero di piccole dimensioni. Come dovevamo,
verosimilmente, essere quelle dei Leontini che non ci sentiamo
pienamente di an-noverare fra i “popoli del mare” se non per una
politica di natura esclusivamente commerciale, non militare, e
concentrata in un raggio d’azione relativamente limitato, ma inserito
nel contesto geopolitico ed economico complessivo. E’ più consono ed
appropriato attribuire lo “status” di vero e proprio “popolo del
mare” in via esclusiva agli Stati che “operano” sul mare una
politica aperta sia di tipo commerciale che militare ovvero l’una o
l’altra, ma con aneliti espansionistici. Altrimenti siamo in presenza
di semplici fre-quentatori, anche assidui, ma pur sempre frequentatori.
Anche se, invero, innesca una certa per-plessità la dimensione
com-merciale siciliana intorno al V° e IV° secolo a.c. E’ questa
l’epoca dei famosi “Pegasi”, monete corionzie adottate in Sicilia
alla stregua di monetazione ufficiale. Contestualmente l’epoca
pre-sentava “forti correnti d’espo-sizione verso la Grecia del
rifor-nimento granaio siciliano...” per dirla con E. Ercolani Chocchi.
Viene difficile pensare alla sola ed esclusiva marina greca.
L’ar-cheologia, sui Leontini, in modo decisivo dovrebbe dare le
proprie conferme. In ogni caso dice bene Santi Correnti quando asserisce
che “Aveva ben ragione il fran-cese Roger Peyrefitte, quando nel 1952
ha affermato che la Sicilia greca è stata il più fulgido centro di
civiltà nel mondo
me-diterraneo; ed il poeta siciliano Salvatore Qua-simodo, premio
Nobel 1959, ha giustamente scritto nel 1954 che <<il sangue
migliore della Sicilia nutrì la civiltà del tempo di Pericle>>”.
Vi vediamo, ben volentieri, anche l’antica Leontini con la sua
politica economicae commerciale, sia pur delimitata, e la sua piccola
flotta marinaresca.
- Riferimenti
bibliografici:
- * C.R. Whittaker. I popoli del mare. Ed.
Laterza 1996.
- * C. Gula. Storia di Leontinoi. Dalle
origini alla conquista romana. Ed. CUECM 1995.
- * J. Hurè. Storia della Sicilia. Ed.
B&B. 1997.
- * S. Correnti. Breve Storia della Sicilia.
Ed. Newton 1994.
- * A. Di Mari. La possibile politica
economica nella antica Leontini del
IV° sec.a.C.- La Notizia
1998
- * E. Ercolani Chocchi. Un’eco-nomia
monetaria. Laterza
1996
-
-
- di
Lentini era il figlio di Carmantide e nipote del famoso
medico Erodico e lo ricordiamo come il più notevole
rappresentante della antica sofistica dopo Protagora,
e, insieme al suo maestroTisia, il creatore dell'arte retorica. Così lo
ricorda già Cicerone, come colui che volle: "dichiararsi pronto a rispondere a tutte le domande, che
ciascuno volesse fargli". (I, 103; De Oratore, a cura di G.
Norcio, UTET, 1976).
Come date di nascita e morte possono essere assunte orientativamente
quelle del 483 e del 375 a. C., morendo quindi ultra centenario. Con
l'esercizio e con l'insegnamento dell'arte oratoria, una novità anche
per il mondo greco, diventò ricco al punto da poter dedicare, a Delfi,
una statua d'oro al dio Apollo. Nel 427 andò ad Atene come ambasciatore
di Leontini, in cerca di alleanze contro lo scomodo potere siracusano, e
lì si fece apprezzare come retore finissimo trovando imitatori: famoso
il suo Epitafio, per commemorare dei soldati ateniesi morti in guerra.
Dello stesso avviso non pare Platone che, nel suo Gorgia, lo
pone in contrasto critico con Socrate (447, c):
"Ma
vorrà poi Gorgia discutere con noi? Perché io vorrei sapere da lui
quale è la virtù propria di quest'arte che egli professa e insegna e
in che cosa precisamente consista".
E più avanti (449, a):
Socrate - 'Piuttosto, Gorgia, dicci tu stesso come dobbiamo
chiamarti e che arte è la tua'.
Gorgia - 'La mia arte è la retorica'.
- E
ancora, dove Platone crea il dialogo tra Socrate e Gorgia in modo che
questi si contraddica, quasi a rivelare una latente rivalità per l'
espressione culturale - confronta con la scheda su Tisia - proveniente
da una ex terra colonica che diventa sempre più sede di potenti città,
usando pure lo stratagemma di "chiedere" a Gorgia risposte
concise, mentre il suo Socrate articola domande molto meglio costruite
(454/455):
- Socrate
- Ti sembra che sapere e credere, ossia 'scienza' e 'opinione', siano la
stessa cosa?
Gorgia - No; direi che son cose distinte.
Socrate - E diresti bene. Infatti se uno ti domandasse: 'Gorgia v'è una
opi nione falsa e una vera?' tu risponderesti di si, credo.
Gorgia - Di si, certo.
Socrate - Ma la scienza può essere falsa e vera?
Gorgia - Assolutamente no.
Socrate - E' proprio vero, quindi, che scienza e opinione non sono la
stessa cosa.
Gorgia - Infatti.
Socrate - Eppure vi ha persuasione sia in quelli che hanno scienza che
in quelli che hanno solo opinione.
Gorgia - Lo credo bene.
Socrate - Dobbiamo stabilire, pertanto, due specie di persuasione:
quella che produce opinione senza il sapere, l'altra che produce
scienza.
Gorgia - Hai ben ragione.
Socrate - E allora dimmi, o Gorgia, quale delle due persuasioni produce
nei tribunali e nelle altre adunanze la retorica intorno al giusto e
all'ingiusto? Quella, cioè, da cui deriva opinione senza sapere, oppure
l'altra da cui deriva il sapere?
Gorgia - Evidentemente quella da cui deriva opinione senza sapere.
Socrate - Dunque la retorica, a quanto pare, è produttrice di quella
persua sione che induce all'opinione senza il sapere, e non alla scienza
del giusto e dell'ingiusto.
Gorgia - Così è.
Socrate - Di conseguenza il retore non insegna nei tribunali e nelle
altre adunanze nulla intorno al giusto e all'ingiusto, ma suscita
soltanto una semplice credenza. Ed infatti, come potrebbe in così breve
tempo insegnare ad una moltitudine di gente cose di così grande
importanza?
Gorgia - Sarebbe effettivamente impossibile.
(Platone, Gorgia, trad. Vito
Stazzone, Ed. APE, Catania, 1944)
- Tale
dialogo di Platone induce a riflettere: l'autore ambienta l'incontro nel
427 a.C, cioè quando Gorgia andò in Atene, ma parrebbe composto
intorno al 395, dopo cioè l'avvenuta condanna a morte di Socrate;
condanna ottenuta dal potere suggestionante della retorica, a danno del
giusto: a danno del giusto Socrate. E il dialogo sopra riprodotto - che
andrebbe letto per intero - è colmo di giusto rancore: "Quando
dicesti che il retore avrebbe potuto servirsi della retorica anche
ingiustamente, io rimasi perplesso (...)". L'animo di Gorgia
si risentì dello scritto dell' allievo di Socrate che lo vedeva
protagonista: il siciliano non avrebbe consentito che la nuova scienza
venisse applicata malamente. Fanno fede i suoi componimenti ulteriori.
-
- I
lavori di Gorgia, oltre l'Epitafio, sono di tematica mitica: l'Elogio di
Elena, La difesa di Palamede, e filosofica: Sul non ente o
della natura; l' Olimpico e il Pitico sono andati perduti;
del Discorso agli Elei abbiamo ben poco. Tra gli altri suoi
viaggi vi sono quelli a Fere in Beozia e in Tessaglia, e fu altre volte
in Atene. La sua dottrina contiene un intendimento dell'arte oratoria
come produttrice di persuasione: non occorre cioè che chi ascolta si
convinca che ciò che ode è la verità, bensì è più utile che questi
si convinca praticamente, piegandosi alla causa sostenuta dall'oratore.
Nell'Elogio di Elena alla parola viene dato il potere di
dominare la vita, influenzandone le scelte anche affettive, per cui la
donna non ha colpa per quel che è accaduto tra i Greci e i Troiani
perché fu spinta dagli dei o dalle parole. E saper accostare parola a
parola può determinare la modellatura dell'animo del singolo, come del
carattere della folla. La parola può modificare l'anima di chi la ode,
e tramite la poesia può anche indurre nuove esperienze (concezione di
cui è evidente la parentela col relativismo gnoseologico di Protagora).
E le due opere prima citate, dedicate a Elena e Palamede, sono saggi
tipici di tale abilità retorica, nata con Gorgia. Nell'opera Sul
non ente Gorgia sostiene tre tesi: nulla esiste, se esiste non è
conoscibile dall' uomo, se è conoscibile non la si può comunicare ad
alcuno, specialmente col solo uso della parola. "La critica più
recente ha chiarito, sopratutto mediante l'analisi comparativa delle due
esposizioni che ci restano dello scritto gorgiano (quella di Sesto
Empirico e quella dello Pseudo-Aristotele), come l'esposizione di Sesto,
da cui deriva l'immagine del Gorgia effettivamente scettico e
nichilista, sia in realtà deformata dalla sua intenzione di dossografo
dello scetticismo, e debba quindi cedere il passo all'esposizione dello
Pseudo-Aristotele, nella quale l'intenzione di ironia antieleatica dello
scritto di Gorgia appare concretamente connessa al suo relativismo
sofistico" (Dizionario Enciclopedico Italiano, ed. Treccani).
Rileggiamo la conclusione dell'Elogio di Elena:
- "Così
con le parole ho liberato la donna dalla sua cattiva fama secondo la
premessa del mio discorso: e sforzandomi di distruggere l'ingiustizia di
un'infamia e l'ignoranza di una opinione, questo discorso ho voluto
scrivere, non solo per elogiare Elena, ma perché fosse a me di passatempo".
(trad. Maddalena, La lett. greca, op. cit.).
- Sul
valore che Gorgia attribuisce al passatempo, allo scherzo,
abbiamo una nota di Aristotele, inquadrata con altre e che forse sono
traccia di una seconda trattazione sulla Poetica, a noi non
pervenuta:
"Su ciò che fa ridere, dal momento che esso sembra avere una
sua utilità nei dibattiti, e che Gorgia ha detto, e ha detto bene, che
occorre distruggere la serietà degli avversari con il riso e il riso
con la serietà, quante siano le forme del comico si è detto negli
scritti sulla poetica: di queste l'una si adatta all'uomo libero,
l'altra no, e si deve scegliere quel che meglio si adatta"
(BUR, app.A).
La lezione di Gorgia è tra quelle immortali dei classici, ed in
generale è tra le più alte lezioni dell'ingegno umano. Per noi
immortale vuol dire davvero rileggere Gorgia con attenzione; pare oggi
un esercizio nuovo l'ascoltare, a saper meglio valutare la enorme mole
di informazioni - che in molti hanno interesse a che venga intesa tutta
come cultura - che ci circonda.
- Ricordiamo
un aneddoto grazioso che si narra a proposito del famoso viaggio di
Gorgia in Atene. Lì egli arringò a lungo la folla, facendo risaltare
la differenza di temperamento che sussisteva tra gli abitanti della
Sicilia e della Magna Grecia, e tutti gli altri, definiti barbari. I
barbari, diceva Gorgia, vivono nella discordia perché vivono tra loro
senza armonia. L'armonia sarebbe stata, secondo l'oratore, il segno
distintivo della superiorità greca sui nemici, e ciò avrebbe
accresciuto la stima ed il timore dei barbari nei confronti dei greci. A
questo punto uno della folla, un anonimo saccente, volle appuntare a
Gorgia una annotazione sulla sua situazione familiare.
"Noi siamo in tanti, Gorgia", disse l'uomo, "e
ci suggerisci di andare d'accordo e in armonia; tutti sanno però che a
casa tua siete in tre, tu tua moglie ed il servo, e litigate da mane a
sera. Non credi che avrebbero più effetto i tuoi discorsi se si sapesse
che voi tre non recate molestia ai vicini?"
Frammento:
- da
ORAZIONE OLIMPICA
Degni dell'ammirazione universale, o Greci (...). Ed alla nostra gara
sono necessarie due virtù: audacia e sapienza, per svelare l'enigma;
perché la parola come il bando dell'araldo in Olimpia chiama chi si
offre, ma incorona chi riesce.
(Clemente Aless.;in I
Presocratici, testimonianze e frammenti; Laterza; 1994)
- Gorgia
fu tra i maestri di Antistene (con Socrate); questi poi
fondò con altri la scuola detta cinica.
-
- dall'
EPITAFIO
- Che cosa non avevano questi uomini
valorosi, di quello che
uomini valorosi devono avere? E che cosa avevano, di quel che
non devono avere? Possa io essere in grado di dire quello che
voglio, ma voglia io dire quello che devo, evitando la nemesi
- divina, sfuggendo all'invidia umana.
Costoro possedevano di
divino il valore, di umano la mortalità, spesso preferendo la
generosa equità al diritto spietato, spesso alla pedanteria
della legge la dirittura della ragione, questa ritenendo essere
divinissima e universalissima legge: dire e tacere, fare e
tralasciare quel che è necessario quando è necessario,
e due cose esercitando sopratutto di quelle che si devono, senno e
ardimento, quello per deliberare, questo per eseguire; difensori
degli ingiustamente sfortunati, punitori degli ingiustamente
fortunati, decisi di fronte all'utile, nobili di fronte al
decoro, con la prudenza del senno dominanti l'imprudenza
dell' ardimento, tracotanti coi tracotanti, saggi coi saggi, impavidi
cogli impavidi, momenti nei momenti tremendi.
A testimonianza di ciò levarono trofei sui nemici, dono votivo
a Zeus, monumento a se stessi, non inesperti né di innato valore,
né di legittimi amori, né di lotta in armi, né di pace,
amanti del bello, reverenti verso gli dei per giustizia, pii verso i
genitori per devozione, giusti verso i concittadini per equità,
rispettosi verso gli amici per fedeltà. Sicché, morti loro,
non è morto con loro il rimpianto: ma di loro, non più vivi, esso
vive immortale nella nostra spoglia mortale.
- (Le più belle pagine di lett. greca
classica, C.Coppola,Nuova Accademia Ed.)
-
- ELOGIO DI ELENA
- E' decoro allo stato una balda gioventù;
al corpo, bellezza;
all'animo, sapienza; all'azione, virtù; alla parola, verità.
Il contrario di questo, disdoro. E uomo e donna, e parola
ed opera, e città e azione conviene onorar di lode, chi di lode
sia degno; ma sull'indegno, riversar onta; poiché è pari
colpevolezza e stoltezza tanto biasimare le cose lodevoli, quanto lodare
le riprovevoli. E' invece dovere dell'uomo, sia dire rettamente
ciò che si addice, sia confutare (giustamente) i detrattori di
Elena, donna sulla quale consona e concorde si afferma e la
testimonianza di tutti i poeti, e la fama del nome, divenuto simbolo
delle fortunose vicende. Pertanto io voglio, svolgendo il
discorso secondo un certo metodo logico, lei così diffamata
liberar dall'accusa, e dimostrati mentitori i suoi detrattori e
svelata la verità, far cessare l'ignoranza.
(I Presocratici; op. cit.).
Tutti sanno che la donna di cui parlo era, per nascita e per
stirpe, prima tra i primi, e uomini e donne: sua madre fu Leda,
il padre vero un dio e quello putativo un uomo, Zeus e Tindaro
(dei quali il primo fu creduto padre perché lo era, l'altro fu
giudicato padre perché asseriva di esserlo), che erano l'uno il
più potente tra gli uomini, l'altro il signore di tutte le cose.
Nata da tali genitori ebbe bellezza divina, che non rimase
nascosta: e grande desiderio di amore suscitò in moltissimi, e
con la sua persona attrasse eroi gloriosi, dei quali alcuni vantavano
grande ricchezza, altri antica nobiltà di nascita, altri
vigoria di corpo, altri forza di sapienza acquisita. Tutti vennero
a lei mossi da ambizioso amore e da invincibile desiderio
di gloria.
Non dirò chi e perché e come, prendendo
Elena, appagò il suo desiderio d'amore, ché, dicendo
a coloro che sanno quel che già sanno, si è sì creduti,
ma non si porta diletto: ma tralasciando di parlare di quel tempo,
darò inizio al mio discorso ed esporrò le cause
per cui la partenza di Elena per Troia non poté non avvenire.
Essa fece quello che fece o pel cieco volere della fortuna e il
consaputo volere
degli dei e un decreto del fato, o perché rapita con la violenza,
o perché persuasa dalle parole, o perché presa d'amore.
Se lo fece per la prima ragione, bisogna accusare chi ne fu la causa,
ché la previdenza umana non può contrastare il volere del dio.
E' legge di natura che il più forte non sia impedito dal debole ma il
debole sia dominato e trascinato dal forte, che il forte guidi e il
debole segua:
ora il dio è superiore all'uomo e per forza e per sapienza e per tutto.
E la divinità supera in forza ed in saggezza ed anche nel rimanente il
mortale.
Se responsabilità si adducesse al Fato o al dio, Elena va discolpata.
(trad. Maddalena, La lett. greca, Laterza, 1960, Bari)
Se fu rapita con la forza e subì violenza e fu oltraggiata
ingiustamente, è chiaro che ha colpa chi la rapì in quanto usò
violenza, mentre essa che fu rapita, in quanto subì violenza, fu
sventurata. Merita costui che, da barbaro, ardì barbara impresa;
merita verbale punizione, ma anche legalmente e di fatto. Con
il verbo gli giunge l'accusa, con legalità la infamia, e con i
fatti la pena. Ma chi subì la violenza e della patria venne privata,
e dei suoi cari spogliata, non deve essere compianta in
vece che diffamata? Quello compì il male, questa lo subì.
Giusto è per il primo il biasimo, giusta per la seconda
la compassione.
Se furono indi parole a convincerla e ingabbiarle l'animo
suo, pur semplice è difenderla e far svanire ogni accusa.
Il discorso, o parola, (logos) è un gigante piccolissimo,
un sovrano che compiere sa cose divine, come annullare i timori
ed ispirare gioia o lacrimevole pietà.
E come ciò ha luogo, lo spiegherò. Perchè
bisogna anche spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue
varie
forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi
l'ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione
che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e
l'anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento,
a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere.
Ma via, torniamo al discorso di prima. Dunque, gli ispirati incantesimi
di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena.
Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell'anima,
la potenza dell'incanto, questa la blandisce e persuade e trascina
col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti,
consistenti in errori dell'animo ed in inganni della mente. E
quanti, a quanti, quante cose fecero credere e fanno credere,
foggiando un finto discorso!
Che se tutti avessero, circa tutte le cose, delle passate ricordo,
delle presenti coscienza, delle future previdenza, non di eguale
efficacia sarebbe il medesimo discorso, qual'è invece per quelli,
che appunto non riescono né a ricordare il passato, né a meditare
sul presente, né a divinare il futuro; sicchè nel più dei casi,
i più offrono consigliera all'anima l'impressione del momento.
La quale impressione, per esser fallace ed incerta, in fallaci
ed incerte fortune implica chi se ne serve. Qual motivo ora impedisce
di credere che Elena sia stata trascinata da lusinghe di
parole, e così poco di sua volontà, come se fosse stata rapita
con violenza? Così si constaterebbe l'imperio della persuasione,
la quale, pur non avendo l'apparenza dell'ineluttabilità, ne ha
tuttavia la potenza. Infatti un discorso che abbia persuaso una
mente, costringe la mente persuasa, e a credere nei detti,
e a consentire nei fatti. Onde chi ha persuaso, in quanto ha
esercitato una costrizione, è colpevole; mentre chi fu persuasa,
in quanto costretta dalla forza della parola, a torto viene diffamata.
E poiché la persuasione, congiunta con la parola, riesce
anche a dare all'anima l'impronta che vuole, bisogna apprendere
anzitutto i ragionamenti degli (scrutatori del cielo), i quali
sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un'
altra, fanno apparire agli occhi della mente l'incredibile e
l'inconcepibile;
in secondo luogo, i dibattiti oratorii di pubblica necessità,
nei quali un solo discorso non ispirato a verità, ma
scritto con arte, sul dilettare e persuadere la folla; in secondo
luogo le schermaglie filosofiche, nelle quali si rivela pure con che
rapidità l'intelligenza facilita il mutar di convinzioni dell'opinione.
C'è tra la potenza della parola e la disposizione dell'anima
lo stesso rapporto che tra l'ufficio dei farmachi e la natura del
corpo. Come infatti certi farmachi eliminano dal corpo certi umori,
e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; così
anche dei discorsi, alcuni producon dolore, altri diletto, altri
paura, altri ispiran coraggio agli uditori, altri infine, con qualche
persuasione perversa, avvelenano l'anima e la stregano.
Ecco così spiegato che se ella fu persuasa con la parola, non fu
colpevole, ma sventurata.
(I Presocratici, op. cit.).
Passo a trattare della quarta causa. Se fu l'amore a fare
tutto questo, facilmente essa sfuggirà all'accusa della colpa che
le si attribuisce. Le cose che vediamo non hanno la natura che
vogliamo, ma quella che loro è toccata, e attraverso la vista
l' anima è variamente sollecitata. Così se vediamo nemici armarsi
contro nemici con una armatura di bronzo e di ferro (...) la
vista si turba, e turba l'anima, in modo che spesso fuggono
entrambe atterrite dal pericolo futuro come se fosse presente,
perché la consuetudine d'obbedire alla legge è come bandita
dalla paura suscitata dalla vista; questa infatti, sopraggiungendo,
fa dimenticare il bello stabilito dalla legge e il bene che s'ottiene
con la vittoria (...).
Così è naturale che la vista ora s'attristi e ora s'allegri.
Insomma molte sono le cose che suscitano in molti amore e desiderio
di molte cose. Se dunque gli occhi di Elena, provando
diletto dinanzi alla figura di Alessandro, ispirarono all'anima
desiderio e travaglio d'amore, che c'è da meravigliarsi? E se
l'amore, ch'è dio, ha potenza divina, come potrebbe respingerlo
od opporglisi uno che sia inferiore? Che se invece è
infermità
dell'uomo ed errore dell'anima, non si deve biasimare come se
fosse una colpa, ma considerarlo una sventura; venne come venne,
per insidia del caso, non per deliberazione della mente; venne
per necessità d'amore e non per artifici.
(trad. Maddalena, La lett. greca, op. cit.).
Che se dunque lo sguardo di Elena, dilettato dalla figura di
Alessandro, ispirò all'anima fervore e zelo d'amore, qual
meraviglia? il quale amore, se, in quanto dio, ha degli dei la divina
potenza, come un essere inferiore potrebbe respingerlo, o resistergli?
e se poi è un'infermità umana e una cecità della mente,
non è da condannarsi come colpa, ma da giudicarsi come sventura;
venne infatti, come venne, per agguati del caso, non per premeditazioni
della mente; e per ineluttabilità d'amore, non per artificiosi raggiri.
(I Presocratici, Laterza, 1994)
Come dunque si può stimare giusto il biasimo di cui è vittima
Elena, che, se ha fatto quello che ha fatto perché innamorata o
persuasa dalle parole o rapita con la forza o costretta dagli dei,
è in ogni caso innocente?
Così con le parole ho liberato la donna dalla sua cattiva fama
secondo la premessa del mio discorso: e sforzandomi di distruggere
l'ingiustizia di un'infamia e l'ignoranza di una opinione, questo
discorso ho voluto scrivere, non solo per elogiare Elena, ma
perché fosse a me di passatempo.
(trad. Maddalena, La lett. greca, op. cit.).