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Storia
del monastero dalle
origini al XV sec.
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Sulle origini del
monastero di S. Maria di
Roccadia rimane la più
assoluta incertezza
riguardo alla data di
fondazione. L’ipotesi
che l’abbazia possa
avere avuto i natali
negli anni della
conquista normanna
dell’isola, intorno al
1070 d.C., e che il
primo abate, Giovanni da
Lentini, sia stato
scelto proprio dal Conte
Ruggero, è dal Pirri
considerata pura
invenzione, se non altro
per incongruenza
cronologica, giacché
l’ordine cistercense
risulta canonizzato non
prima del 1098 d.C. Non
è impossibile invece
immaginare che
l’istituto sacro sia
stato effettivamente
fondato durante il
governo del conte
Ruggero, probabilmente
non prima della
definitiva conquista
dell’isola, ed
amministrato da monaci
di regola benedettina e
solo successivamente, in
data non precisata,
affidato ad una
congregazione
cistercense. Purtroppo
non rimane alcun
documento a conferma di
tale pensiero.
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Il Manriquez ricorda il
complesso come
ascrivibile ad una
filiazione dell’abazia
di Sambucina, in
Calabria. Pirri ritiene
credibile, per quanto
egli stesso affermi che
si tratti solo di
congetture, la notizia
legando la fondazione
con la venuta in
Sicilia dell’abate di
Sambucina Luca, inviato
nell’isola come legato
Pontificio da Innocenzo
III. Sarebbe dunque
possibile che tale
personalità, la quale
ben presto eccelse in
fama e importanza nel
regno, promuovesse o
fosse fautore della
fondazione di Roccadia.
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La lista degli abati di
S. Maria di Roccadia ha
il suo inizio con il
citato Giovanni di
Lentini, la cui
collocazione cronologica
sfugge ancora. Mugnos
ricorda il nome del
secondo abate, tale
“Nivaldus Sclafano”,
durante la reggenza del
quale si ritiene che
Federico II, già re di
Sicilia, ma non ancora
imperatore, abbia fatto
atto di donazione al
monastero di beni mobili
e immobili, come
debitamente ricordato in
quell’unico documento
superstite, che narra
dei possedimenti
dell’abbazia, databile
circa al 1220 d.C. In
effetti la formula
riportata in quest’unico
atto di epoca
federiciana, tanto
importante per la storia
del monastero di
Roccadia, non può
lasciare spazio a molti
dubbi, visto che
l’autorità imperiale in
tal modo recita: “ …
Concedentes, donantes et
confirmantes eidem
Monasterio in perpetuum
possessiones et omnia
bona quae in praesenti
tenet et possidet…”.
Destinatario della
conferma di tali
proprietà e privilegi fu
l’allora abate Antonius,
come ricordato nell’atto
stesso.
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Riguardo, dunque,
all’aspetto cronologico,
in base ai pochi dati
ricavabili dalle
concessioni confermate
da Federico II, si può
dunque ben ipotizzare
che il monastero fosse
non solo preesistente al
1220, ma anche che
probabilmente esistesse
già durante la minore
età e durante i primi
anni di regno dello
stesso Federico. Allo
statto attuale delle
ricerche si ritiene, di
conseguenza, inutile
andare oltre l’ipotesi
espressa, sebbene non
sia affatto improbabile
che S. Maria di Roccadia
abbia visto i natali
durante il regno
normanno.
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Al 1262 risale un atto
proveniente dalla
cancelleria di Manfredi,
forse uno dei pochi
riguardanti la Sicilia.
Nel documento si
testimonia la necessità
di riparare alla rovina,
nella quale era caduto
il complesso sacro di
Roccadia. In questo
caso, la formula e le
modalità di riparazione
espresse nell’atto
meritano un accenno.
Manfredi letteralmente
ordinò a Umfredo
Alemanno “Justitiario
Vallisneti de nostro
Regno Sicilia ultra
Farum” nonché
“Castellani Castri
veteris nostra fidelis
Civitatis Syracusarum,
statim capta de eo
possessione…” di “…tradere
debes dictum Castrum,
cum juritus et
pertinentiis suis
omnibus in manibus
Joannis de Pedelepore…”.
Da questa transizione di
beni ne trasse vantaggio
il monastero di Roccadia,
giacché “…cuius
introitus et arredamenta
debita per dictum de
Pedelepore infra annum
convertere debes pro
readificatione
venerabilis Monasterii
S. Maria de Roccadia de
Ordine Cisterciensium…”.
Si trattò forse di
un’abile manovra
finanziaria operata da
Manfredi per riedificare
il monastero senza che i
costi gravassero
direttamente sulle casse
della corona, impegnata
a respingere le mire
rapaci di Carlo d’Angiò.
In realtà non si
conoscono del tutto le
cause della distruzione
del monastero,
possibilmente
ascrivibili a calamità
naturale.
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Dei decenni della
dominazione angioina
poco o nulla proviene
dalla superstite
documentazione
riguardante il monastero
di Roccadia. Solo una
notizia del Pirri,
ripresa tra l’altro dal
Mugnos, riguarda i
primissimi anni del
regno aragonese
sull’isola: nel 1284
Pietro d’Aragona
largheggia in
concessioni e immunità
per l’abbazia lentinese.
Tre anni dopo, nel 1287,
in una lettera papa
Onorio IV nomina l’abate
di Roccadia, tale
Aloisio, al fine di
dirimere una contesa
territoriale tra il
monastero di S. Maria la
Scala e S. Maria in
Valle di Giosafat presso
Paternò.
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Le condizioni economiche
di S. Maria di Roccadia,
alla fine del XIV sec.
risultavano, comunemente
a molti altri istituti
sacri, critiche. Nel
1390 l’abate Antonio fu
colpito da scomunica
causa inadempienze
fiscali da parte del
monastero nei confronti
della Camera apostolica.
Ma già nel 1376 il
predecessore di Antonio,
frate Pietro, chiese un
prestito all’abate di
Roccamadore, Nicola di
Perretta. Il debito
ancora nel 1397 non
risultava estinto e al
fine di rientrare in
possesso della somma
concessa, una cifra non
indifferente, ben undici
onze d’oro, lo stesso
Nicola pare fosse
costretto a interpellare
re Martino, il quale,
contrariamente alle
aspettative, rinviò
l’esecuzione del debito.
L’aver partecipato alla
ribellione di Raimondo
Monacada, tra la fine
del XIV e gli inizi del
XV secolo, fu per
l’abate di Roccadia
Antonio un’altra mossa
errata, le cui
ripercussioni colpirono
gravemente le rendite
del monastero. Martino,
per ritorsione, infatti
privò Roccadia delle
rendite della grangia di
S. Maria de Catarractis,
presso Ragusa,
assegnandoli nel maggio
del 1398 ad un prete di
Lentini, vittima della
ribellione. Solo al
termine delle lotte e
dopo la rioccupazione di
Lentini, Martino si
decise a restituire beni
e rendite che il
monastero possedeva nel
paese.
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Nel 1407 fu elevato a
carica di abate del
complesso lentinese
“Joannes de Tharest”,
sotto la reggenza del
quale, almeno a detta
del Pirri, “…Roccadiae
fabricis auxit, ac
vetustate collapsum
restituit…” . Un
brevissimo passo nel
quale si apprende, per
il monastero, della
necessità di restauri
agli inizi del XV sec.,
non tanto a causa di
possibili eventi
naturali disastrosi,
quanto per l’antichità
delle fabbriche,
presumibilmente ancora
quelle risalenti
all’ultima ricostruzione
del 1262/1263. A
conferma della
gravità della
situazione, nel 1437
l’abbazia versava in
stato di estrema
povertà, tanto da non
poter sostentare i frati
e celebrare le funzioni
religiose. Infatti al
dissesto finanziario si
era anche aggiunto il
cattivo governo
dell’abate Nicolò della
Solfa, che venne
prontamente accusato di
alienazione e
dissipazione dei beni
del monastero.
Conseguentemente l’abate
venne deposto e
sottoposto ad un
processo lungo ed
estenuante dal quale ne
uscì con un vitalizio di
5 onze d’oro annuali,
pagate dal nuovo abate
di Roccadia, frate
Guglielmo de Sgarbo, che
prontamente chiese
l’annullamento di tale
obbligo, anche in
conseguenza delle
finanze dell’abbazia,
ormai al collasso.
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Fra gli ultimi abati del
XV sec. si ricorda
“Joannes de Girifalco”,
del quale non conosciamo
la data di elezione,
sebbene il Mongitore si
dilunghi alquanto in
relazione ai suoi nobili
natali e alla sua
influente parentela a
corte. Tra l’altro, lo
storico ricorda che
all’interno del
monastero di Roccadia
giaceva sepolto il
fratello di Giovanni,
tale Tommaso de
Girifalco, secondo
quanto ricordato da una
iscrizione forse ancora
visibile all’epoca del
Mongitore, il quale ne
riporta per intero
l’iscrizione.
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Prima del “regime di
commenda”, l’ultimo
abate a reggere il
complesso sacro di
Roccadia fu Romano
Testa, eletto secondo
volere regio nel 1451,
per quanto tale scelta
venne subito contestata
dal pontefice, che in
violazione della
“legatia apostolica”
elesse un tale Giovanni
Aurispa. Ne nacque un
contenzioso, per la cui
risoluzione re Alfonso
chiamò in causa gli
abati di S. Nicola
l’Arena e S. Maria di
Nuovaluce, a
sottolineare ancora una
volta non solo la
volontà regia di
mantenere il controllo
sul potere spirituale
della chiesa sull’isola,
ma anche ad evidenziare
rapporti e giochi di
potere che sussistevano
tra monasteri non
proprio limitrofi e di
ordine religioso
diverso. Non a caso la
contesa si risolse con
la piena riabilitazione,
nel 1457, di Romano
Testa, morto appena
quattro anni dopo, nel
1461.
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Topografia e
architettura di S. Maria
di Roccadia
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La storia del monastero
di Roccadia, così come è
possibile ricostruirla
attraverso le fonti
documentarie giunte fino
ai giorni nostri, è, in
sostanza, uno spaccato
della storia
ecclesiastica siciliana,
coinvolgente non solo
l’ambito territoriale
lentinese, ma anche
catanese e messinese.
Purtroppo all’interno di
questa vicenda storica
tanto articolata la
perdita maggiore si deve
registrare nella totale
scomparsa delle
fabbriche del complesso
sacro a causa di una
calamità naturale,
questa volta ben
registrata dalle
cronache del tempo: il
terremoto del 1693.
Mongitore recita quasi
un epitaffio sulla
scomparsa del monastero:
“… ex Terraemotu
Coenobum solo aequatum;
quare in Oppido
Carleontinensi Monachi
novum magnificis
fabricis sunt moliti ad
plagam septemtrionalem,
intra ipsius Oppidi
moenia…”. L’intero
complesso venne, dunque
trasferito all’interno
dell’abitato di
Carlentini, scomparendo
come unità ecclesiastica
a sè stante rispetto
alla vicina vita urbana.
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Sul luogo di fondazione
dell’antico complesso
apprendiamo labili
notizie sempre dal Pirri,
“… situm olim id
Monasterium sub S.
Mariae de Roccadia
titulo in Emporio
Leontinensi, ejusque
territorio ad tria milia
pass ab Oppido…”.
Inoltre V. Amico offre
una breve descrizione
dei luoghi su cui
insisteva il monastero,
ricordando, tra l’altro,
la presenza di vistosi
ruderi, fra cui un’ampia
sala circolare coperta
da volta costolonata
sorretta da pilastro
centrale. Qualora il
complesso fosse giunto
intatto ai giorni
nostri, pur con i
diversi rifacimenti
avvenuti nell’arco dei
lunghi secoli di vita,
sarebbe stato certamente
un interessante esempio
di architettura
normanno/sveva. Bisogna
comunque sottolineare
l’assoluta assenza di
ricerche in campo
archeologico, che
ovviamente avrebbero
potuto, se non
restituire una perfetta
visione delle antiche
strutture, almeno
definire meglio
l’estensione del
complesso, scandendo le
diverse fasi edilizie ed
evidenziando il rapporto
che il monastero
intratteneva con il
territorio circostante.
Ad oggi questi dati
mancano del tutto e,
pertanto, il presente
scritto deve
considerarsi per forza
di cose incompleto.
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Bisogna considerare come
marginale la questione
legata ai resti del
complesso sacro ancora
oggi esistenti in
località Agnone Bagni,
non lontano dalla costa
lentinese, che la
maggioranza degli
storici siciliani, sulla
base di una affermazione
del Manriquez, ha voluto
attribuire alla volontà
di Federico II di
trasferire il monastero
di Roccadia in sito più
consono e ameno. Si
tratta di ipotesi
possibile, sebbene non
rimanga alcun documento
che confermi il
trasferimento della
comunità cistercense di
Lentini dalle colline
verso la costa. Forse il
documento mai venne
scritto, poiché le
fabbriche di Agnone
Bagni rimasero, come
ancora oggi è possibile
osservare, incomplete:
il cantiere, infatti,
giunto circa a tre metri
di alzato venne
smantellato e mai più
ripreso. Le motivazioni
di questa sospensione
sono a tutt’oggi
sconosciute, per quanto
le ragioni forse debbano
essere trovate nella
crescente ostilità del
papato nei confronti
della politica
federiciana e ancora
nella forzata partenza
dell’imperatore verso la
Terrasanta.
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Qualunque corso abbiano
avuto le vicende, quel
che rimane ai giorni
nostri è, in sostanza,
l’impianto di una
basilica a tre navate,
con tre absidi quadrate
e orientamento
est-ovest. La tecnica
edilizia rimanda senza
alcun dubbio, e nei
materiali e nella
perfezione delle misure,
ad una fabbrica
federiciana come quella
di Castel Maniace o,
come attualmente
preferisce la
storiografia più
recente, a Castello
Ursino di Catania, al
quale i ruderi di Agnone
Bagni si vuole siano
vicini cronologicamente.
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I resti dell’edificio
sacro sono composti da
un alzato che solo sul
fianco settentrionale
raggiungono circa tre
metri di altezza. La
muratura, spessa cm.
260,32, è formata da un
comune nucleo centrale
di pezzame e malta e due
paramenti, esterno ed
interno, composti da
doppia fila di conci
squadrati e stilati a
chiodo. Quel che rimane
del prospetto principale
è appena sufficiente per
dare una semplice
visione d’insieme
dell’imponenza
dell’impianto: esso si
conserva per l’altezza
di nove assise di conci
alti in media cm. 35 e
larghi sino a m. 1,50. I
filari posseggono un
andamento ordinato,
sebbene esso risulti
ovviamente interrotto in
corrispondenza
dell’innesto con quel
che rimane del portale,
costituito da conci più
alti, nei quali
risultano intagliate le
decorazioni. Questo
ingresso ha una
larghezza di oltre
cinque metri e presenta
un profilo a “greca” che
ha indotto alcuni
studiosi a paragonarlo
al portale principale di
Castel Maniace. In
realtà pare che le
analogie permangano solo
per l’ampiezza e la
forma delle basette di
colonna. Ultimamente si
ritiene che maggiori
corrispondenze si
possano, invece, trovare
con il portale della
basilica di Maniace,
presso Bronte, almeno
relativamente alle
colonne maggiormente
aggettanti sul filo del
muro rispetto a quelle
presenti presso il
castello Maniace di
Siracusa.
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Le tre navate della
chiesa sono suddivise da
dodici pilastri centrali
e tredici semi colonne
addossate alle pareti
interne e realizzate da
pile di conci di altezza
compresa tra i 25 e i 40
cm., la cui disposizione
e il cui taglio
sembrerebbe ricordare
più da vicino la
fabbrica del Castello
Ursino.
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L’area presbiterale si
compone di un transetto
rettangolare, sporgente
sulle navi per una
misura pari alla
profondità delle navate
laterali, largo tanto
quanto la navata
centrale e profondo in
misura simile alla
larghezza. Inoltre il
muro nord del transetto
presenta un’apertura
archiacuta, ancora oggi
ben visibile. Riguardo
alle absidi, invece, è
possibile osservare un
ampio rimaneggiamento
dovuto all’impianto di
fabbriche moderne che
hanno trasformato
soprattutto l’abside
centrale in cappella
padronale. A causa di
queste radicali
trasformazioni purtroppo
rimangono solo pochi
metri di alzato relativi
all’ampio arco di
trionfo composto da
pilastri rientranti ed
angoli a quarti di
colonna. La muratura
delle tre absidi è
formata, all’esterno, da
conci regolari di
grandezza inferiore
rispetto a quelli
osservati nel resto
dell’edificio e solo i
cantonali si mostrano
rinforzati da conci di
grandezza pari a quella
precedentemente
analizzata, ad esempio,
nel prospetto. Inoltre
l’attacco a terra si
offre mediato da uno
zoccolo unito alla
parete per mezzo di
un’unica cornice
composta da una scozia
profonda compresa da due
tori.
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I recenti studi hanno
analizzato con maggiore
dovizia i moduli
costruttivi utilizzati
per erigere la basilica
del Murgo. L’unità di
base utilizzata è, pare,
la misura di cm. 32.54,
in sostanza il piede
delle misure arabe
canoniche. La profondità
complessiva
dell’impianto è pari a
254 moduli più uno
legato alla base esterna
della colonna del
portale principale, per
un complessivo totale di
255 moduli. I rilievi in
pianta hanno inoltre
evidenziato che il
transetto è la metà
esatta della lunghezza
totale dell’edificio,
tolto lo spessore
murario delle absidi. La
nave, inoltre, possiede
un’ampiezza pari ad n
terzo della lunghezza
totale, similmente al
lato breve de transetto.
Le due navate laterali
contano 17 moduli,
quella centrale 35.
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Da una simile analisi,
secondo alcuni studiosi
è possibile evincere una
metodologia costruttiva
che non preveda prima il
completamento delle
absidi e del transetto,
ma, la realizzazione del
corpo di fabbrica
sembrerebbe procedere
dall’esterno verso
l’interno, cioè
attraverso
l’edificazione prima
delle navate laterali e
delle absidi,
successivamente della
navata centrale e del
transetto. Tecnica
simile sembra osservarsi
pure nell’edificazione
di Castel Maniace a
Siracusa e Castello
Ursino a Catania, con il
quale sembrerebbero
risaltare alcune
similitudini
relativamente alla
tessitura muraria
dell’interno e, come
precedentemente
accennato, alla modalità
di realizzazione delle
semi colonne. Forse
sulla base di queste
semplici osservazioni si
potrebbe dire che la
basilica incompiuta di
Agnone Bagni sia da
porre in un arco
cronologico compreso tra
i due citati castelli,
forse in un periodo più
vicino alla
realizzazione del
castello catanese.
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Per certi versi la
basilica del Murgo
rimane un “unicum”
edilizio che per alcuni
versi unisce la Sicilia
alle tecniche edilizie
continentali. L’utilizzo
di absidi quadrate, ad
esempio, per quanto non
sia del tutto avulso
dalla cultura isolana,
certamente non è
diffusissimo fra le
superstiti chiese
cronologicamente più o
meno coeve. Anche le
altre caratteristiche
edilizie osservate
spingono a immaginare
l’immissione in suolo
siciliano di maestranze
provenienti dal
continente e
opportunamente inserite
nel tessuto sociale e
artistico dell’isola per
volontà di Federico II.
Che queste maestranze,
almeno quelle adibite
alla direzione
dell’opera, fossero di
origine cistercense
rimane l’ipotesi più
credibile, sebbene
probabilmente l’apporto
di manodopera locale
fosse quantitativamente
non indifferente, vista
anche l’ampiezza
progettuale rimasta
purtroppo solo nella
mente dei realizzatori.
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Bibliografia
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-
S. Fodale, Il
clero, op. cit.,
pp. 98 e s.
-
-
V. Amico.
Lexicon
Topographicum
Siculum, vol. II,
pp. 429 e seg.
-
-
S. A. Alberti,
La basilica
del Murgo,
in Federico II e
la Sicilia,
dalla terra alla
corona, vol. II,
arti figurative
e suntuarie a
cura di M.
Andaloro, pp.
449 e seg.;
-
-
G. Agnello,
Architettura
sveva in Sicilia,
pp. 235 e seg.
|