- La banda musicale di Lentini (1839-1958)
- Notizie tratte dall’omonimo volumetto curato
dagli alunni della scuola media “Riccardo da Lentini” diretti dalla
prof.ssa Millauro – Ed.Aletheia - Catania 1998.
- Dalla testimonianza dell’ex bandista G.
Ferlito
- Ho fatto parte del corpo musicale “Citta’
di Lentini” ed ho suonato il clarinetto per ben 7 anni dal 1950 al 1957.
Il corpo musicale “Citta’ di Lentini” vantava una lunga e prestigiosa
tradizione. Il repertorio musicale comprendeva brani di musica sinfonica ed
operistica che proposti da veri talenti musicali faceva si che la banda
fosse richiesta e apprezzata in molte piazze della Sicilia. Gli elementi che
distinguevano la nostra banda da altre formazioni musicali erano spesso il
rigore disciplinare e la competenza musicale del maestro direttore. Il corpo
musicale era non solo il vanto della nostra cita’ ma costituiva un momento
di svago e divertimento per i cittadini che intervenivano numerosi ad ogni
esibizione che la banda proponeva tutte le domeniche presso i giardini
pubblici di villa Gorgia. (..)
- La ricostruzione storica
- Il
primo documento rinvenuto nell’archivio comunale e’ datato 26 agosto
1839. si tratta di una lettera inviata dal sottintendente del distretto di
Siracusa, conte Amorelli, al sindaco di Lentini, Scapellato. (…) i
componenti la banda musicale sono undici, di eta’ compresa tra i 14 e i 58
anni, suonano strumenti musicali a fiato e a percussione e vestono una
uniforme rossa. La banda musicale inizia cosi’ la sua storia con un
organico strumentale estremamente povero. Il 22 aprile 1841 il ministero
della polizia generale in Napoli emana il regolamento delle bande musicali
che estende ai componenti delle bande il gia’ esistente decreto del 24
novembre 1827 riguardante le guardie urbane. (…) e’ del 21 febbraio 1846
la deliberazione comunale che assegna un’annua pensione alla banda. (…)
Successivamente la banda verra’ sovvenzionata con contributi volontari dei
cittadini, col dazio sulla carne o con alcuni lasciti come quello di don
Carmelo Scavonetto. I bandisti che fanno parte del corpo musicale sono in
prevalenza “mastri” artigiani o apprendisti. Al calare del sole si
riuniscono nella scuola di musica (attuale biblioteca comunale) e,
illuminati dalle lampade ad olio, concertano i loro brani musicali con la
costante presenza di una folla indisciplinata di curiosi. (…) i pezzi
cosi’ concertati vengono poi proposti alla comunita’ durante le feste,
sui palchi nelle piazze o nel teatro comunale (attuale pescheria). (…)
Dopo l’unita’ d’Italia, a partire dal 1862, la documentazione sembra
testimoniare una maggiore attenzione da parte delle autorita’ cittadine
nel regolamentare incarichi, diritti e doveri di ogni bandista. (…) Il
maestro direttore e’ obbligato a prestare servizio presso il comune di
Lentini almeno per 5 anni. Nel periodo post-unitario la banda cresce
notevolmente; dagli 11 musicanti del 1839 si passa ai 40 del 1865, si
arricchisce cosi’ di timbri strumentali diversi. (…) Nel 1886 la banda
e’ ufficialmente fondata ed il 7 aprile, con delibera comunale, viene
eletto maestro direttore il
sig.Nicola Cecchi. Il suo corpo musicale e’ obbligato a tutti i servizi
richiesti: festivita’ religiose e civili, parate militari, pompe funebri
per ufficiali, guardie d’onore per appartenenti alla Guardia Nazionale.
Inoltre e’ tenuta a suonare durante la stagione estiva tutti i giorni di
domenica e di giovedi’ dal 24 giugno al 15 ottobre; durante la stagione
invernale, oltre al giorno di natale e del primo dell’anno, anche nei
giorni di domenica. Per tutto il resto dell’anno e’ tenuta a suonare il
solo dopo pranzo di ogni domenica. Sempre nel periodo post-unitario, sotto
la direzione del maestro Cecchi, diventano numerosi i casi di
insubordinazione di alcuni bandisti, l’assenza sistematica di molti
suonatori, i continui scioperi per la mancata paga mensile. (…) Nel 1876
la banda e’ in piena crisi. Il 22 giugno, su mozione del barone
Beneventano, il consiglio comunale scioglie la banda musicale. Il 6 ottobre
dello stesso anno il consiglio comunale approva, su proposta del sig.La
Ferla Limoli, la riorganizzazione del corpo musicale. Da questo momento in
poi il direttore dovra’ essere nominato mediante concorso per titoli e
avra’ il compito di istituire una filarmonica (mai formata). (…) Il
maestro A.Badiali, vincitore del concorso, rimarra’ in carica fino al
1878, anno in cui abbandonera’ per motivi di salute. La banda diventa
occasione di grande gioia collettiva come quando “il piano piazza” si
trasforma in una grande pista da ballo ed e’ il sindaco Geronimo che, con
avvisi pubblici invita la cittadinanza a partecipare (28 febbraio 1878). Dal
1881 al 1883 sono molte le lettere di ringraziamento dei sindaci dei comuni
di Buccheri, Caltagirone, Carlentini, Francofonte ecc. per le eccellenti
esibizioni della nostra banda durante le occasioni delle loro festivita’
religiose. (…) nel 1892,
direttore maestro Cecchi, la banda conta 36 musicanti, ad essi si aggiungono
10 o 12 allievi istruiti per sostituire quei bandisti che vanno nel Regio
esercito o si assentano. (…) Scaduta la nomina del maestro Cecchi, nuovo
direttore e’ Giuseppe Vigoni (1892). (…)
Nel 1893-94 cambiano ben 3 maestri. Dapprima al Vigoni si sostituisce
il ventottenne Federico Salerni, diplomato al conservatorio di Milano, poi
e’ la volta del maestro Giovanni Pipitone, ma la malattia che lo colpisce
porta nell’anno 1984 , alla nomina del maestro Giuseppe Tutrinoli..
(..) Nel 1902 si dimette il maestro Tutrinoli e gli succedono i
maestri Caravaglios, Spampanato e Vitale. Il 3 novembre del 1905 la banda
e’ nuovamente sciolta e nel maggio del 1906 viene ricostituita con il
rinnovamento degli strumenti e delle uniformi. Ma non passano nemmeno 2 anni
che il maestro Vitale, scrivendo al comune, si lamenta dello stato
miserevole della banda musicale, individuandone le cause in motivi di natura
economica. Le insubordinazioni si moltiplicano e con esse le multe e le
sospensioni. (..) Nel 1909 Vitale si dimette, nello stesso anno gli subentra
il maestro Garzia che si fa portavoce del malcontento dei bandisti. Vengono
cosi’ apportate modifiche al regolamento e viene corrisposto un aumento di
paga e si apportano modifiche alle loro uniformi. In seguito alla disdetta
del maestro Garzia nel 1914 e’ bandito
un nuovo concorso ed e’ nominato direttore il maestro Del Buono. Nel
1917, nel pieno del primo conflitto mondiale, la banda non riesce a
mantenere il minimo dell’organizzazione ed e’ nuovamente sciolta. Il 16
luglio 1920 si ricostituisce. Nel 1931 il commissario del dopolavoro
A.Bonfiglio comunica al sindaco che la banda musicale e’ stata iscritta
d’ufficio al partito fascista. Muore il maestro Del Buono e il 31 agosto
1935 viene nominato il maestro Nicola De Pasquale. Viene anche conferito un
compenso extra al maestro direttore per l’istruzione di una squadra di
tamburini Balilla. Con l’inizio della seconda guerra mondiale ed il
richiamo alle armi, la banda si ridimensiona notevolmente, subisce modifiche
d’organico ed alla fine del conflitto nel 1945, e’ completamente
sciolta. Tuttavia nello stesso
anno, su pressione popolare, il Comitato di Liberazione Nazionale
ricostituisce la banda. (..) Nel 1951, dopo l’alternarsi alla direzione
della banda dei maestri Semeraro e Galfano, e’ reintegrato il maestro De
Pasquale. Nel 1952 e’ istituito il Comitato pro Lentini che
amministrera’ i comitati pro musica, SS.Leonzio (la societa’ che
gestisce la squadra di calcio locale) e le attivita’ assistenziali. La
banda nonostante continui a crescer artisticamente, tanto da vincere
nell’agosto 1953 un concorso bandistico regionale, inizia il suo declino.
Nel 1956 con l’istituzione del “comitato comunale per le attivita’
ricreative, folcloristiche e culturali” che prendera’ il posto del
“comitato pro musica”, la centralita’ del ruolo della musica
bandistica, cosi’ come l’interesse collettivo per essa, sembrano
tramontare a favore del crescente interesse per le attivita’ sportive
della squadra di calcio SS.Leonzio. Dall’altro canto i nuovi mezzi di
diffusione musicale come la radio ed il giradischi, l’apertura del cinema
Odeon che si aggiunge ai cinema Tirro’ e La Ferla ed all’arena S.Croce,
avevano rotto il monopolio della Banda musicale che non costituisce piu’
fonte di svago collettivo. Il 31 agosto 1958 il corpo musicale viene
definitivamente sciolto.
-
-
- AD
ANNA VALLE E ANSELMO MADEDDU IL PREMIO INTERNAZIONALE "IL
PALADINO" 1999
- Due
lentinesi alla ribalta dello spettacolo e della cultura
-
- Per
la prima volta nella sua storia il Premio Internazionale "Il
Paladino" è stato assegnato, tra gli altri, a due giovani personaggi
lentinesi: Anna Valle e Anselmo Madeddu. La cerimonia di consegna del
prestigioso premio si è svolta lo scorso 26 novembre nei locali del
Teatro Vasquez di Siracusa ed ha visto la partecipazione di un pubblico
attento e numeroso. Il Premio "Il Paladino", giunto ormai alla
sua 28° edizione, vanta nel suo parterre
nomi di tutto rilievo, come quelli di Leonardo Sciascia, Gesualdo
Bufalino, Salvatore Fiume, Pippo Baudo, Salvo Randone, Lydia Alfonsi, Leo
Gullotta, ed altri ancora. Con Anna Valle ed Anselmo Madeddu la giuria ha
voluto premiare due volti nuovi, due giovani siciliani, e lentinesi in
particolare, emergenti nel settore del cinema e della cultura. La
bellissima Anna Valle, come è noto, è balzata agli onori della cronaca
nel settembre del 1995, quando ha vinto l'ambito titolo di Miss Italia a
Salsomaggiore Terme. Da allora la sua carriera artistica è stata un
continuo crescendo, con numerose partecipazioni nel mondo dell'alta moda e
dello spettacolo, fino alla famosa serie televisiva "Commesse",
trasmessa da RAI 1, che ha definitivamente consacrato l'ingresso di Anna
Valle nel mondo del cinema. L'ultimo suo impegno televisivo è
rappresentato dalla fiction
"Turbo" trasmessa proprio in questi giorni su RAI 2. Anselmo
Madeddu, invece, si è recentemente distinto nel mondo della cultura e
della ricerca scientifica. Medico epidemiologo di valenza nazionale,
Madeddu ha fondato il Registro Territoriale delle Patologie ed è Primario
e Direttore del Distretto Sanitario di Siracusa.
Attualmente è Vicepresidente dell'Ordine dei Medici di Siracusa e
Docente presso la Facoltà di Medicina dell'Università degli Studi di
Catania, dove tiene la Cattedra di Epidemiologia Generale della Scuola di
Specializzazione di Igiene e Medicina Preventiva. Vanta parecchie
pubblicazioni scientifiche attinenti l'area del management sanitario e
dell'epidemiologia dei tumori. Degne di nota le sue ricerche sul ruolo
anticancro delle arance a polpa rossa e sul rapporto tra l'uso di
antiparassitari ed il tumore della vescica. Studi che hanno suscitato
l'interesse ed il consenso di autorità scientifiche come Veronesi, Fara e
Del Toma. Da tempo, tuttavia, Madeddu cura anche interessi storico
letterari. Autore di quattro libri e di una ventina di monografie, Anselmo
Madeddu ha esordito nel 1989 col libro "Ortigia,
un crogiuolo di civiltà al centro del Mediterraneo", seguito dal
libro "La Peste del sonno"
nel 1993 e da "Figli della
memoria fossile" nel 1994. Ma la sua opera certamente più nota
è l'ultimo libro "Vittorini da
Robinson a Gulliver", che ha riscosso il più ampio consenso da
parte dei maggiori critici italiani del settore da toscano Massimo Grillo
allo scrittore milanese Raffaele Crovi, il quale ha definito Madeddu uno
"tra i maggiori interpreti dell'opera vittoriniana in Italia". A
questi due illustri figli di Lentini, Anna Valle ed Anselmo Madeddu,
vadano i migliori auguri per un futuro pieno di successi, nell'auspicio
che possano essere d'esempio e di stimolo a tanti altri giovani siciliani.
-
-
- Cirino
Paone "Leonzio" - eroe della Resistenza
- da un articolo tratto dal "Cammino"
di Siracusa del 28-2-98
- E' stato pubblicato, con il patrocinio del
Comune di Lentini, il libro di Salvatore Paone "mio fratello il
partigiano Cirino Paone - Leonzio" ed.Greco. E' una interessante
ricerca storica sulla vita di un "generale della resistenza",
conosciuto negli ambienti partigiani con il nome della squadra di calcio
della sua citta' natale: "Leonzio". L'opera ha il merito di fare
luce sulla tragica esperienza bellica vissuta dal lentinese Cirino Paone,
decorato con medaglia d'argento al valore militare, per le sue doti di
coraggio e promosso maggiore dell'esercito per meriti di guerra. Ma chi
era Cirino Paone? Ci risponde con il suo libro proprio il settantenne
fratello minore, Salvatore, che vive oggi a Siracusa. L'autore scrive una
storia vera che si legge tutta d'un fiato. Ricostruisce con amore il
singolare cammino umano del suo personaggio, rende onore a chi ha vissuto
nella rigorosa coerenza le sue battaglie ideali. Dopo la conclusione della
guerra "Leonzio" - antieroe per antonomasia - uomo discreto e
riservato non strumentalizza mai il suo passato di partigiano: preferisce
mettersi da parte e vive a Genova sino al 1° gennaio 1980, giorno della sua
improvvisa scomparsa. A distanza di anni, la sua straordinaria storia merita
la rievocazione ed il fratello-scrittore si mette al lavoro: Cirino Paone
non era uno qualsiasi. L'autore riscopre tutti i documenti che vedono
"Leonzio" protagonista di eventi eccezionali e si sofferma in
particolare sul periodo militare.Dalla chiamata alle armi, novembre 1941, e'
tutto un susseguirsi di fatti impressionanti. Il fronte Russo - Al
giovane sottotenente Cirino Paone giunge nel gennaio 1943 l'ordine di
partire per la Russia, verso le immense pianure sovietiche ove si stanno
logorando duramente le vite dei militari italiani, con temperature da 30
gradi sotto zero. Le pagine del libro ripercorrono quelle drammatiche
esperienze. Rientrato in Italia, viene fatto prigioniero dai tedeschi e
deportato in Polonia. Tutta la ricostruzione della prigionia polacca e'
tratta dal diario tascabile di "Leonzio", trovato dopo la morte,
per caso, tra vecchi ricordi custoditi dalla madre. L'autore della
pubblicazione ripercorre storie di umiliazioni, stenti, ma anche di
commovente speranza in Dio tra baracche, gelo, reticolati e guardie. Poi nel
gennaio 1944, il ritorno in Italia su carri bestiame e l'avventurosa fuga
dal treno verso Genova.La lotta partigiana - cominciano anni
terribili per gli italiani rimasti sotto le forze naziste. Periodi di lutti,
sofferenze ed ingiustizie. In quel clima inizia in Liguria la lotta
partigiana. A Chiavari nasce un nucleo di "ribelli". Le pagine che
descrivono azioni di guerra, tragiche vicende, scontri, guerriglie,
rastrellamenti, caduti, sono tutte da leggere. Riaprono ferite, ma mettono
in luce la storia di cui "Leonzio", nelle valli liguri, e' stato
protagonista assieme al leggendario genovese "Bisagno", capo dei
partigiani liguri. Sono numerosi gli episodi riferiti: documentano una
opposizione al nazismo, condotta senza compromessi. Si legge: "I
protagonisti di tante lotte contro il nemico, contro il freddo, contro la
fame, si sentirono poi quasi degli emarginati della nuova societa' che
sembrava vedere in loro soltanto delle comparse". La Morte -
L'eroe lentinese muore a Genova appena cinquantottenne, stroncato da un
improvviso malore il 1° giorno del 1980. "Leonzio" aveva espresso
il desiderio di fare riposare le sue spoglie mortali nel cimitero di
Lentini. Tutte le autorita' del suo paese gli resero l'ultimo saluto il 6
gennaio 1980. Da allora Cirino Paone dorme tra tanta gente
"lontana" cui era rimasto legato da profondo affetto. Alla sua
memoria Lentini, nello stesso anno della sua scomparsa, dedica una via
cittadina. Una semplice targa ne riporta il nome: le nuove generazioni lo
ricorderanno. Nel 1995 il Ministero della difesa gli conferisce il titolo
onorifico di tenente colonnello.
-
-
- I Bronzi di Riace
sono lentinesi?
- C’è un nesso tra la città di Leontinoi e
i celebri Bronzi di Riace? Secondo il prof.Salvatore Ciancio assolutamente
si, soprattutto se si tiene conto della figura e delle opere di Pitagora
Leontino.Vediamo come. Partiamo allora dal Pisano Baudo: Che
il famoso statuario
dalla cui rinomanza menarono vanto gli antichi sia stato Pitagora Leontino
e non Pitagora di Reggio della Magna Grecia è una questione ormai
risolta;un fatto pienamente accertato. E ci reca somma meraviglia come mai
la Nuova Enciclopedia Italiana Popolare abbia potuto attribuire a Pitagora
di Reggio le opere e i meriti del nostro Pitagora, ed altri abbiano potuto
confondere questi due statuari, i quali furono ben distinti da Plinio, che
nell’enumerarne i pregi diede il primato al Leontino. Era quindi già
polemica sulla questione prima ancora che, a distanza di un secolo
dall’uscita degli scritti dell’illustre canonico lentinese, Sebastiano
Pisano Baudo,un subacqueo romano, bravo e fortunato, Stefano Mariottini,
scoprisse, nell’agosto del 1972, nel mare che fu delle due Sicilie,
all’altezza del Capo di Riace, i corpi superbi di due magnifici colossi
bronzei.Ma cosa offriva alla storia Plinio il Vecchio a proposito di
Pitagora Leontino? E’ sempre il Pisano Baudo che continua a parlare:
L’avere primo fra tutti saputo condurre ad una notevole finezza i
metalli e i marmi,rilevando nella statua i nervi, le vene ed imitando al
naturale i capelli. Questo, intanto, il famoso passo latino che Plinio
dedicò all’arte eccelsa di Pitagora Leontino: Hic primus nervos et
venas expressit, capillumque diligentius. Ma quale Pitagora, visto che
Plinio, oltre al Leontino, ne cita appunto un altro di Reggio Calabria e
un altro ancora di Samo? L’archeologo lentinese Salvatore Ciancio, già
ispettore onorario ai monumenti dell zona del Lentinese, - uno deli
scopritori in assoluto dell’antica Leontinoi insieme al cultore di
storia antica locale Alfio
Sgalambro e allo scrittore Carlo Lo Presti - fu il primo studioso ad
affrontare seriamente il problema.Il Ciancio, riprendendo gli studi del
Pisano Baudo, scrive, prima di passare a miglior vita, un trattatello sui
Bronzi di Riace dal titolo: CHI DOVE COME e, nonostante le mille difficoltà
provocategli da accademici presuntuosi e pseudo accademici, comincia a
modellare imperterrito la sua verità. Ma, cosa mette
i Bronzi di Riace - si domanda il Ciancio - in relazione con
Pitagora? Proprio il giudizio con Plinio, sottolineando i meriti del
Leontino, sembra illuminarci sui pregi indiscutibili dei
Bronzi di Riace: Hic primus nervos et venas expressit, capillumque
diligentius. E in realtà, osservando le opere a noi pervenute, non
sappiamo chi,e in quale opera, esprima meglio tendini e vene, nonchè i
capelli in maniera molto accurata. Come si può vedere, il Ciancio è
sulle stesse posizioni del Pisano Baudo il quale, però, a prescindere
dall’apparizione dei Bronzi, aveva in precedenza già cantato le lodi
dell’impareggiabile arte bronzea del Pitagora Leontini, fiorita nel V°
sec. a.C. a Lentini, in Sicilia, nella Grecia e nella Magna Grecia. Il
passo di Plinio, in effetti, circa il primato tecnico e artistico del
Pitagora Leontino nei confronti degli altri due Pitagora non ammette,
dunque, equivoci di sorta. Così le risultanze del Ciancio, così quelle
del Pisano Baudo. Ma sentiamo ancora il Ciancio: La nave che trasportava i
Bronzi non raggiunse mai il porto di Atene. Era una nave greca,
ovviamente. Se navigò dal porto di Leontinoi, raggiunse la zona
dell’odierna Riace Marina dopo una notte e un giorno di viaggio. Tanto
impiegava una nave oneraria per coprire tale tragitto. Affondò per
improvvisa tempesta? Fu avvistata al largo dello Stretto e affondata da
navi di Siracusa e di Messina? E’ certo che intorno al 427 i Leontini
erano bloccati per terra e per mare dai Siracusani, che gli Ateniesi, pur
disponendo del porto dell’alleata città di Reggio, non erano padroni
dello Stretto. Crediamo, pertanto, che Salvatore Ciancio avesse avuto
sempre la persuasione profonda o se vogliamo anche la fede incrollabile
verso l’idea di una visione perfetta intorno alla scoperta di una sua
verità inespugnabile. L’intuizione del Ciancio, comunque, parte anche e
soprattutto dal fatto che nel v° sec. avanti Cristo Leontinoi era una
grande e ricca e saggia e colta città della grecità.Oltre ad avere,
infatti,una scuola bronzea, aveva anche una scuola di retorica e
un’altra ancora di medicina, guidate, queste ultime, rispettivamente da
Gorgia e da Erodico che Platone ricordò dettagliatamente nel suo Gorgia.
Ecco perchè il Ciancio rileva, con sensibilità vivissima che la
perfezione anatomica e le proporzioni fisiche, Pitagora avrebbe
potuto apprenderle presso la scuola del medico leontino Erodico, la cui
medicina era applicata per la salute degli atleti. Il Pisano Baudo, che
tanto ispirò lo stesso Ciancio, così definisce il Pitagora Leontino: Fu
egli perciò il rappresentante principale di quella scuola di
sviluppo nella statuaria, che precedette le scuole di arte perfetta
stabilite in Atene ed in Argo da Fidia e Policleto. La verità del Ciancio
sui Bronzi di Riace, insomma,
quanto vale? Certo è che essa merita studio e rispetto. Guardando la
straordinaria potenza e ammirando la rara bellezza dei due prodigiosi
colossi bronzei, emersi improvvisamente dagli abissi marini, chi è che
non ne vorrebbe sapere di più sul loro conto? L’incertezza che ruota
fino ad oggi attorno alla identificazione assoluta dell’autore dei
Bronzi di Riace, in ultima analisi, non è affatto una maledizione. Dopo
tutto chi può contestare Sofocle quando nel suo Edipo Re riferiva
prodigiosamente: quale uomo porta con sè altra felicità se non quella
che immagina...?
-
-
- Lentini e
Carlentini: matrimonio possibile?
- brano tratto dal settimanale
"Primo" di Siracusa (luglio 2000) a firma del prof. Cirino Gula
- A scadenza pluriennale, si risente parlare
del tema della riunificazione, senza poi approdare a nulla. Si risente
parlare della famosa delibera del Consiglio comunale di Lentini in cui si
profilava l'ipotesi della riunificazione dei due comuni, senza rendersi
conto che i processi di questo tipo abbisognano di altro che non di
delibere, che sono pezzi di carta se non sono sostanziati di impegni di
due contraenti (i matrimoni, alla fine, si fanno in due!). Ha ragione alla
fine Tocco quando accenna alla possibile volontà egemonica di qualche
lentinese, ma il problema, almeno per quanto mi riguarda, non e' se i
lentinesi vogliono conquistare Carlentini, quanto piuttosto quale sia
l'interesse dei due comuni. Voglio dire che in tempi in cui si tende a
superare le barriere di tutti i tipi, in cui il ristretto ambito locale (e
spesso localistico) perde di importanza, mentre acquista rilievo lo stare
insieme, non foss'altro perché stare insieme conviene, sotto tutti i
punti di vista, il rinchiudersi nel proprio orticello rischia di far
perdere la bussola, impedendo di vedere, leopardianamente, oltre il muro
della grettezza. un proverbio cinese recita: quando il saggio indica col
dito la luna, l'imbecille guarda il dito. Non vorrei che il saggio abbia
indicato la luna e noi ci impelaghiamo in discussioni inutili. Questo
significa, a mio modesto parere, che il dibattito non può, non deve,
vertere solo sulle indicazioni dei singoli esponenti politici (penso, per
esempio, alla necessità di sentire gli operatori turistici, i
commercianti, i poteri economici), ma deve coinvolgere tutta la comunità
(intendo quella dei due paesi), perché il problema riguarda tutti, ma
proprio tutti senza nessuna eccezione. Se l'impulso di Battaglia ha avuto
un merito, oltre le posizioni specifiche, e' quello di aver gettato un
sasso nello stagno limaccioso di un problema che non può essere
più disatteso. La domanda alla quale bisogna dare una risposta e':
possono i due comuni da soli rispondere alle sfide che vengono poste dallo
sviluppo? Il richiamo al passato comune, alla comune origine, allo stesso
nome, alle parentele storiche lascia il tempo che trova perché ormai il
trascorrere degli anni e la tempesta delle discordie hanno lasciato il
sego e sarà difficile rimarginare ferite che tra l'altro molti non
vogliono curare. Non e' il passato che ci deve guidare, quanto piuttosto
il futuro. Voglio dire che gli stessi interessi, i problemi comuni e la
volontà di risolverli devono rappresentare la stella polare che ci
guiderà in un cammino diverso rispetto al passato. Pensiamo, per esempio,
ai problemi quotidiani della nettezza urbana. C'e' qualcuno che pensa che
questo problema possa essere affrontato e risolto in chiave localistica o
non e' il caso di arrivare ad una gestione unitaria che possa, alla fine,
preferibilmente portare alla costituzione di un centro unico per lo
smaltimento, il recupero e il riutilizzo dei rifiuti a scopi energetici?
Pensiamo al problema viario. E' ancora pensabile che Carlentini sia
tagliato fuori dall'ospedale, dalle grandi vie di comunicazione (leggi
Autostrada Catania-Siracusa; 194 ecc.) e chi più ne ha più ne metta?
Perché non pensare seriamente, ad esempio alla costruzione di una strada
che congiunga la zona sud di Carlentini e l'ospedale, costituendo, assieme
alla viabilità esistente, una specie di raccordo anulare che giri attorno
ai due abitati e li cinga? Pensiamo al problema dell'acqua. Non tutti
sanno che l'annoso problema idrico del quartiere Sopra Fiera di Lentini
poteva essere risolto facilmente se si fosse accettata la proposta
dell'On. Sergio Monaco di far pervenire l'acqua per caduta da Carlentini
senza spese di motori di rilancio, per piani pozzi o quant'altro. Pensiamo
al problema degli impianti sportivi. Lentini e Carlentini hanno degli
impianti sportivi, pubblici o privati poco importa, ma essi sono
insufficienti alle necessità delle 2 comunità. Perché non pensare alla
possibilità di evitare doppioni, predisponendo un piano di interventi in
questo settore, approfittando del fatto che a livello provinciale esiste
un piano che riguarda i 2 comuni separatamente? Si potrebbe cominciare con
una gestione comune della piscina di Lentini, usata da sportivi lentinesi
e carlentinesi, in cui Carlentini non interviene minimamente. Un consorzio
tra i 2 comuni (non escluderei nemmeno Francofonte, visto che anche gli
amici di Francofonte usano la piscina di Lentini) potrebbe essere una
soluzione. E si potrebbero creare strutture diversamente dislocate nei
territori dei 2 comuni (anche 3), predisponendo trasporti che mettano in
comunicazioni gli abitati. Se volessimo fare un elenco delle cose che
conviene fare in comune (potenza delle parole, due comuni che non vogliono
fare le cose in comune!) non basterebbe tutta la rivista che ci accoglie.
Pensiamo al problema degli agrumi, al problema dello sviluppo economico
(un piano comune avrebbe una ricaduta maggiore per la forza della
sinergia), al problema turistico ( i 2 comuni hanno, in gran parte
insieme, un patrimonio di beni culturali notevole, ma manca un piano di
interventi di insieme), al problema dei trasporti, degli investimenti,
della gestione dell'ambiente. Affrontarli insieme significherebbe renderli
più facili, avvicinerebbe i cittadini, eviterebbe polemiche inutili.
Sogni? Illusioni? Utopie? Forse. Ma spesso aspirare all'impossibile ci
permette con maggiore facilità di fare il possibile. E l'unificazione? Si
o no? ma chi ha detto che e' la panacea, chi ha detto che tutto dipende da
questo? Con molta modestia, per evitare di urtare la suscettibilità di
qualcuno, pensiamo che sia molto affrettato porre la questione in questi
termini alternativi: o l'unificazione (per qualcuno l'annessione) o il
nulla. Noi pensiamo che ci sia una via intermedia, fatta di cose in
comune, di interventi che spostano in avanti il problema, che gettano il
cuore oltre l'ostacolo, che affidano alle cose ed agli uomini di domani
(migliori sicuramente di noi, intessuti di rancori, astiosi, poco propensi
al cambiamento, legati ad un passato i cui fili sono stati recisi
dalla storia) il compito di risolvere il problema. Lavorare in comune,
affrontare problemi comuni, creerà la necessità di incrementare
rapporti, renderà indispensabile mettersi insieme, farà superare
incomprensioni. Come le liti tra coniugi si risolvono nella stanza da
letto, anche le diatribe tra i 2 comuni si risolveranno sul terreno del
lavoro comune. Non saranno i nostri figli ad unire i 2 comuni (se
questo e' il loro destino), sarà il futuro che irromperà nelle
loro case e li costringerà a fare quello che il tempo richiederà, di
valicare, per dirla con Montale, la muraglia che ha in cima i cocci aguzzi
di bottiglia del passato.
-
-
- La Corale
Polifonica "Ad Dei Laudem"
- STORIA
Il coro polifonico "Ad Dei Laudem" fondato nel 1982, svolge
un intensa attività di animazione liturgica e concertistica, partecipando
a diverse rassegne e tenendo numerosi concerti in Sicilia, in
numerose regioni italiane e all'estero.Nel
1986 il coro si è costituito in associazione promovendo attività
culturali ed artistiche volte alla diffusione della musica nel campo
corale.Ha organizzato
diversi corsi e seminari, tra i quali: "Dalla coscienza della
voce al canto corale", tenuto nel 1987 da Marika Rizzo, il
seminario "Canto gregoriano e polifonia Sacra"tenuto nel
1989 da don Nunzio Schilirò, sino agli ultimi due stages di
perfezionamento nel 1995 e 1996 con il M° Sebastian Korn. Per la
promozione della musica polifonica, nell'anno 1992 tenne, presso le scuole
medie e superiori di Lentini e delle città vicine, una serie di lezioni -
concerto completate dal saggio finale assieme agli alunni.Da
diversi anni il coro ha intrapreso una intensa attività di scambi
artistico - culturali, ospitando ed organizzando nella propria città,
concerti di cori italiani e provenienti dalla Repubblica Ceca, Ungheria,
Svezia, Lettonia, Estonia, Grecia. CURRICULUM Il coro
polifonico “Ad Dei Laudem” di Lentini, diretto da Alida Balcone,
ha ottenuto un prestigioso riconoscimento a livello internazionale
guadagnando il 3° posto per la sezione polifonia nel “ CERTAMEN
INTERNATIONAL DE HABANERAS Y POLIFONIA” svoltosi dal 22 al 30
luglio scorso nella città di Torrevieja in provincia di Alicante
(Spagna) e giunto alla sua 46° edizione. I cantori di Lentini si sono battuti con altre 23 compagini corali
provenienti da vari paesi del mondo con la prevalenza di America
Latina ( Argentina, Colombia, Brasile, Porto Rico, Cuba, Venezuela,
Messico), Portogallo, Spagna, Ucraina , Lettonia, Russia, tra i quali
alcuni tra i più affermati del mondo. Questo successo italiano è il primo da quando il CERTAMEN è nato nel
lontano 1954. Oltre al riconoscimento della critica il coro italiano ha ottenuto un
notevolissimo consenso di pubblico e citazioni nella stampa nazionale e
internazionale (El Mundo) grazie soprattutto all’ultimo brano di libera
scelta, Insalata Italiana, che ha sorpreso favorevolmente per
l’originalità e per l’interpretazione brillante con effetti teatrali.
Nel Maggio 1994 ha partecipato a Palermo al grande raduno delle corali
siciliane e al concerto "In Memoriam" organizzato
dall'Associazione Regionale Cori siciliani e dedicato alle vittime della
mafia. Tra le animazioni liturgiche di maggiore rilievo a cui li coro ha
partecipato si citano, la consacrazione del Santuario della Madonna delle
Lacrime di Siracusa e il 10 Novembre 1996 nella Basilica Vaticana in Roma
la solenne Messa in occasione del Giubileo Sacerdotale di S.S. Giovanni
Paolo II, ambedue presiedute dallo stesso Pontefice. Cospicua anche l'attività concertistica con esibizione in numerose città
e capoluoghi di provincia siciliani come Catania, Siracusa, Enna, Palermo,
Messina, e in diverse regioni d'Italia come Umbria, Marche, Toscana, Lazio,
citando le più recenti. Nel 1993 ha rappresentato l'Italia alla VI
Rassegna Internazionale tenutasi a Miskolc (Ungheria). Nell'Agosto 1997,
la corale ha eseguito una serie di concerti a Stoccolma, ospite del coro
Levande Ton. A
riconoscimento dell'attività svolta il 21/12/1997 al coro è stato
conferito il premio SICILIA IL PALADINO. Il 2 settembre 2000 ha eseguito, a Militello V.C., , la prima parte dei
“Carmina Burana” di C. Orff, diretto dal M° Sebastian Korn. Vincitore del 3° premio assoluto per la sezione polifonia, alla 46°
edizione del “Concorso internazionale di HABANERAS e POLIFONIA”
svoltosi dal 22 al 30 luglio 2000 a Torrevieja (Spagna). Vincitore del primo premio al V concorso di polifonia popolare calabrese
a Reggio Calabria, il 30 dicembre 2000. Email: adl@sicilyonline.it
Sito: http://web.tiscalinet.it/addeilaudem
-
-
- Carlo Lo Presti,
artista di multiforme ingegno di Giuseppe La Pira
- Con Carlo Lo Presti ci aveva fatto
incontrare la comune passione per un giornalismo per noi d'annata, anche
se per gli altri relegato ai margini della nobile professione, quanto
limitato alle semplici corrispondenze della città. Non era facile. Ne'
comprensibile da quanti oggi vi si affacciano sorretti dalla on-line o
dall'e-mail. Il giovane corrispondente allora (siamo nel 1948) doveva
farsi le ossa sul campo, impegnandosi ad affrontare una infinita' di
problemi, essere in grado di descrivere con obiettivita' e competenza
tutti i vari avvenimenti che gli si presentavano. Lentini infatti,
dimenticata quell'epoca in cui si era costretti al conformismo, all'uniformita'
del pensare, al ricevere passivamente le veline che arrivavano dall'alto,
nell'immediato dopoguerra si era tuffata in quella nuova atmosfera del
vivere democratico, partecipandovi attivamente. Ci si abituava alla
dialettica politica; nascevano e vivificavano sempre nuove attivita': il
Centro Studi, il corpo musicale, la squadra di calcio, il cine-teatro
Odeon, il Rotary Club, i premi nazionali per il teatro, la poesia, il
giornalismo, la sicilianita'. Conseguentemente il giovane corrispondente
era necessitato a scrivere i suoi articoli sui dibattiti politici, sul
consiglio comunale, sugli scavi archeologici, sulle conferenze, sulle
riviste teatrali, sulla "nera" fortunatamente in quei tempi
assai scarsa. Riconoscerete che bisognava avere una, anche se modesta,
cultura enciclopedica ed una serie di sussidi che potessero facilitarne il
lavoro. Ricordo ad esempio, che per scrivere i miei pezzi sulla rinascente
Leonzio, ma soprattutto per impossessarmi della tecnica e dello stile, fui
costretto a fare una indigestione degli editoriali di Bruno Roghi,
compianto direttore del settimanale "Calcio Illustrato". Ma la
stesura del pezzo non copriva i nostri compiti: per trasmetterlo si
utilizzava la busta "fuori sacco" da consegnare il piu' delle
volte al vagone postale dell'ultimo treno in transito per Catania, mentre
per quello urgente o "fuori orario" si era costretti a servirsi
dell'unico centralino telefonico sito in via Garibaldi, gestito
dall'inossidabile Alfio Gaeta ("manitta" per gli amici),
condannati spesso, per ragioni di un traffico che assorbiva tutte le
utenze della citta', a snervanti attese di ore ed ore. Qui di conseguenza
si esaltava la professionalita' degli stenografi, che in pochi istanti
dovevano ricevere, trascrivere e passare in redazione quella notizia
dettata in fretta e la cui ricezione, con relativa interpretazione,
risentiva particolarmente della carente funzionalita' e della limitata
efficienza della rete telefonica. In quella "singolar tenzone"
ci confrontavamo giorno dopo giorno con l'amico ed antagonista Carlo (io
corrispondente de "la Sicilia", lui del "Corriere di
Sicilia") in uno slancio continuo di emulazione, in una autentica
gara che non conosceva soste nel lodevole, reciproco tentativo di
pervenire allo scoop, nella speranza di una bucatura dell'altro ma
soprattutto nell'intento di superarci l'un l'altro nel presentare al
lettore la notizia che ci stava impegnando. Ricordo che spesso, nel
commentare le mie caustiche critiche alle amministrazioni o all'esito di
una partita di calcio, soleva maliziosamente dire che anziche'
nell'inchiostro ero "uso intingere la penna nel veleno". Ma
Carlo l'avevo conosciuto tanto tempo prima, quando seduto sui sedili in
ferro del cine-teatro La Ferla, ammiravo i suoi successi di capocomico di
una compagnia di giovani universitari, il cui repertorio spaziava dalla
commedia alla rivista. Con lui Pippo Fuccio di Sanza', lo sciupafemmine
Franz Sciacca (il locale Rabagliati e barone Von Balatizack), Luigi
Cormaci (fine dicitore alla Nunzio Filogamo), Delfino Bosco (inesauribile
fonte di comicita'). Prima donna la fascinosa Rosina Pisano, che sarebbe
diventata la sua compagna per la vita. Indimenticabile per me la
rappresentazione dell' "Aria del Continente" e la rivista
"Storia di Orlando e Rinaldo", tratta liberamente dalla poesia
di Martoglio e culminante con la pazzia di Orlando ppi causanza di la
bedda Angelica. Poi, man mano che i giovani tornavano dal fronte o dalla
prigionia, alla scapigliata brigata si aggregavano cultori di tutte le
arti: Luigi Pattavina, Mario Piazza, Turi Lazzara, Silvio Riccardi (Alfio
Cardillo), Delfino Sgalambro, Turiddu Guercio e tanti altri che mi e'
impossibile ricordarne. Carlo Lo presti pero' non era solo questo ! Seppe
ad esempio trasformare quell'ampio magazzino, ceduto in comodato al Centro
Studi Notaro Jacopo dal barone Giuseppe Luigi Beneventano, in un circolo i
cui saloni per la loro eleganza e recettivita' destavano la meraviglia dei
tanti circoli della provincia. Era riuscito infatti a far coesistere in
esso la stanza per la Direzione, un bar, due salotti di conversazione, un
piccolo palcoscenico che guardava dal fondo l'ampio salone, adibito anche
a biblioteca e/o sala da ballo. Per i primi Lentini seppe sfruttare la sua
amicizia con Mario Gori, un delicato poeta niscemese trapiantato in
Toscana, agganciando artisti, letterati, critici fra i piu' famosi
d'Italia. Scriveva commedie e qui ne ricordiamo qualcuna: "Pensione
23", "Democratici in provincia", "Referendum",
"Quello della prima fila", "La campana del viatico",
"La casa in fondo alla strada", "Venditori di fumo",
"Plenilunio", "Il Camaleonte". Per non dimenticare
quell'"Attesa sulla riva del fiume", rappresentata nel 1964
nell'ambito delle manifestazioni dei "Premi Lentini per il
teatro", una commedia che, richiamandosi al notissimo detto cinese,
narra nell'arco di vent'anni le vicende di un morto-vivo, che riesce a
balzare fuori dall'ombra quando tutto di lui sembrava dimenticato. E
soprattutto quel "Ritorno di Gorgia", che costituisce il suo
colpo d'ala e che interpretato da Lydia Alfonsi e da Arnaldo Nichi fu
spesse volte trasmesso dai canali delle reti RAI nazionali. Nel 1969 venne
organizzata una gita di due settimane a Londra. Ci prenotammo con le
rispettive famiglie, ma lui poco dopo fu costretto a rinunciarvi. Il 2
aprile, mentre alla stazione mi accingevo a partire per raggiungere
l'aeroporto di Roma mi giunse inaspettata la ferale notizia della sua
morte davanti alla macchina da scrivere con cui si accingeva ad ultimare
la sua "Sicilia Teatro". Non lo vidi piu': un avversario leale,
un amico cosi' presto perduto!
-
- Ermanno Di
Pasquale: un pianista virtuoso di Lentinionline
- Il pianista Ermanno Di Pasquale, lentinese
doc, si è diplomato con il massimo dei voti al Conservatorio di Musica di
Messina con la guida del maestro Franco Cristina. Si è successivamente
perfezionato a Roma con il pianista Fausto Zadra presso il Centro
Internazionale di Studi Musicali ed ha inoltre partecipato a corsi di
interpretazione musicale tenuti da Zecchi, Agosti, Hiltbrand e Magaloff.
In particolare, con il pianista Kempff ha approfondito lo studio e
l’interpretazione delle «Sonate» di Ludwig van Beethoven. Ha tenuto
numerosi concerti, partecipando a Festival Internazionali di musica e
registrando sia per la Rai che per la Radio Vaticana. Studioso di Vincenzo
Bellini, va segnalata la sua scoperta, di notevole valore musicologico,
del manoscritto autografo di una Fuga a quattro voci, molto ampia, su un
tema dell’Opera “I Puritani” composta dal Genio Catanese (con ogni
probabilità l’ultima sua fatica) e dallo stesso compositore trasposta
per pianoforte. Di Vincenzo Bellini, oltre alla «Fuga», ha revisionato
altre composizioni per pianoforte, presentandole in prima esecuzione
assoluta in vari concerti tenuti a Catania e, recentemente, a Roma e a
Firenze. Insegna al Conservatorio di musica "Licinio Refice" di Frosinone come titolare di
una cattedra di pianoforte principale.
- Storia di una fuga in Ermanno Di Pasquale
- di Gianni Failla (dal libro "Siracusani in cammino"-Ed.Cammino-2006)
- L’ opera di Carmelo Neri “Caro Bellini...
Lettere edite e inedite a Vincenzo Bellini”, stampata nell’ottobre 2001,
conclude una vivace trilogia di ricerche belliniane edite da “Prova
d’Autore”. Il lavoro propone ai lettori la raccolta organica delle lettere
dei numerosi corrispondenti di Vincenzo Bellini, scrupolosamente trascritte
ed annotate dall’autore. L’ epistolario del “Cigno” catanese ben inquadra la
singolare personalità del “biondo Musicista” nell’ambito della sua stessa
vita come del costume dell’epoca. Le centouno lettere comprendono un arco di
tempo che va dal 1826 sino al 1835, anno in cui il Bellini tragicamente morì
in Francia. Come evidenzia l’interessante prefazione del tosco‑leontino
Giuseppe Cardillo, consigliere delegato dell’associazione culturale
“Sicilia‑Firenze”, le ricerche di Carmelo Neri “si distinguono per la
dovizia di documentazioni inedite, per lo scrupolo dei rinvii bibliografici
e per le geniali deduzioni che propongono”. A pagina 131 del libro vi è una
“chicca” che indirettamente “inorgoglisce” la redazione di “Cammino”: è
pubblicata una lettera inedita, da Carrega indirizzata a Bellini nell’agosto
1835. Tra l’altro, vi si legge: “Mio caro Bellini, ti mando l’Album di cui
ti ho parlato: fammi il piacere di comporre un estro di tua fantasia per il
Piano e mandamelo...”.
- La scoperta - Si legge nella nota
dell’autore che questa letterina, o “biglietto”, fa pensare che Bellini
abbia assunto l’impegno di una composizione da inserire nell’Album di cui
gli aveva parlato l’amico. In mancanza di altri elementi, può identificarsi
nella “Fuga” sul tema Se tra il bujo un fantasma vedrai dei Puritani “rid.
per pianoforte”. L’ autografo, riconosciuto tale da un’accurata perizia
grafica, è stato scoperto tra le carte del Conservatorio di Santa Cecilia di
Roma dal pianista don Ermanno Di Pasquale, che ha suonato questo brano in
prima esecuzione assoluta il 18 aprile 1996, nel corso di un concerto tenuto
presso il Lyceum di Catania.
- La notizia - Ebbene, al concerto
catanese dell’amico don Ermanno Di Pasquale assistetti anch’io per conto dei
lettori di “Cammino”. Fu un successo di pubblico ed anche una grande
gratificazione professionale per il maestro‑pianista, sacerdote lentinese
ordinato nel 1968 e trapiantato ormai da tanti anni a Roma, ma “incardinato”
nella nostra diocesi. La pubblicazione su “Caro Bellini...” di quella
letterina all’origine della “Fuga” scoperta da Ermanno Di Pasquale,
riannoda adesso su queste pagine di “Cammino” il legame culturale tra il
nostro settimanale ed il sacerdote‑pianista, felicemente ravvivato proprio
da quell’indimenticabile incontro musicale del 1996, vissuto al Lyceum della
città etnea. Don Ermanno Di Pasquale è un musicista di valore, titolare
della cattedra di pianoforte principale presso il Conservatorio statale “L.
Recife” di Frosinone. Ha un curriculum artistico impressionante, che
testimonia l’alto livello delle sue capacità. “Innamorato” del Cigno
catanese, non si stanca mai di ricercare e scoprire l’eufonia della vita,
tra Vangelo e Musica. “Cammino” calorosamente si compiace che il volume
“Caro Bellini...” riconosca adesso a don Ermanno il valore della scoperta di
quello straordinario manoscritto, di cui il nostro settimanale aveva dato
l’annuncio nel lontano 24 ottobre 1996 con un articolo dal titolo
“Straordinario manoscritto di Vincenzo Bellini scoperto da Ermanno Di
Pasquale sacerdote lentinese”. Vincenzo Bellini certamente era morto con il
desiderio che questo suo ultimo lavoro fosse conosciuto e divulgato. In
quella felice occasione del 1996, in redazione fummo anche noi
particolarmente lieti per la diffusione della scoperta tra la gente. Per il
rispetto dovuto alla verità, il lettore consenta al cronista questa pur
legittima ostentazione di una primizia di sei anni fa, pubblicata nella
“Paginatrè” di questo settimanale di… periferia, cui lo “scoop”
giornalistico in esclusiva non monta certamente la testa.
-
- Eugenio
Colombo - celebre spalla di Angelo Musco di Gianni Cannone per Lentinionline
- Di Eugenio Colombo (Lentini 1885 - Catania
1976) troviamo nota nella monumentale opera di Carlo Lo Presti "Sicilia
Teatro": << figlio d'arte da tre generazioni, sin da giovane recito' insieme
al fratello Lindoro (marito di Rosina Anselmi), dal 1912 al 1914 nella
compagnia di Giovanni Grasso. Il suo particolare temperamento comico lo
porto' a staccarsi dal grande attore drammatico per affiancarsi ad Angelo
Musco. Tranne la parentesi bellica del 1915-18 (dove fu ferito sul Carso)
rimase nella maggiore compagnia comica siciliana sino alla morte del grande
comico (1937). Poi segui' la sorte della compagnia Abruzzo-Anselmi e nel
secondo dopoguerra venne scritturato dal Teatro Stabile di Catania. Era nato
a Lentini nel 1885 e si rivelo' subito per certi strani tipi che riusciva a
mettere in berlina. Suo padre era stato il piu' grande interprete della nota
maschera siciliana "Pasquino" e non poteva che ereditare l'arte difficile
della creazione di macchiette che resteranno impresse poi come veri
personaggi di molte commedie siciliane. Dotato di un timbro di voce
teatralissima (forse l'unica nel suo genere in tutto il teatro italiano) si ricordera' specialmente per l'indimenticabile sagrestano di Fiat Voluntas
Dei e per quasi tutti i tipi che creo' per il repertorio di Musco. Con l'Anselmi
tento' la via del capocomico, ma ormai la sua figura era relegata ai tipi
che il pubblico di tutta Italia gradiva e non poteva facilmente
disfarsene.>>
- Nel 1996 la citta' di Lentini ha pensato
bene di dedicare ad Eugenio Colombo una via a futura memoria (La notizia n.21
del 9-11-96). La scheda di questo figlio illustre di Lentini, presso la
Commissione Toponomastica, porta la firma del giornalista Gianni Cannone.
(Approfondimento su Internet)
-
- Salvatore Brancato - Premio Archeoclub
"Sebastiano Pisano Baudo" 2002 - di Lentinionline
- Salvatore Brancato, numismatico e studioso
della storia leontina e di S.Alfio, nasce a Lentini nel 1926. Appena
ventenne
emigra a Milano dove per anni e' bibliotecario del Centro Numismatico
Milanese. Nel 1982 va in pensione e si puo' dedicare con
maggiore impegno ai suoi studi: la storia e i personaggi storici di Lentini,
con particolare riguardo ai SS.Martiri Alfio, Filadelfo e Cirino. Spunto
delle sue riflessioni sono soprattutto gli intrecci storici che spesso
intercorrono fra Lentini (patria natia) e Milano (patria adottiva). Forte
della sua notevole conoscenza nel campo numismatico, in parecchi anni,
raccoglie una grande mole di prezioso materiale. Una prima raccolta viene
alla luce nel 1985 con la stesura di 2 volumi "Uomini e Santi di Lentini".
Nel 2000 una ulteriore raccolta di materiale viene a formare una seconda opera
intitolata "Terrone e Polenta". In essa vengono riportate
preziose notizie, degne di ulteriore approfondimento, come quella sull'esistenza
di una basilica dedicata a S.Tecla,
venuta alla luce diversi anni fa, esistente sotto il sagrato del Duomo
di Milano [
foto ]. Il riferimento ai SS.Martiri Alfio Filadelfo e Cirino e'
contenuto nel ser.77 di S.Ambrogio, vescovo milanese. Probabilmente, visto
l'elogio di S.Ambrogio dedicato ai SS.Martiri lentinesi (che certamente
conosceva), nonche' il periodo di realizzazione della costruzione, la
basilica di cui sopra potrebbe riferirsi alla Tecla leontina, donna di
nobile famiglia e ricca proprietaria, cugina di Alessandro, seguace di
Tertullo, tiranno di Lentini. Tecla, colpita da paralisi alle gambe, venne
miracolata dai 3 Santi Martiri e successivamente santificata. Una terza e
ultima raccolta di materiale dal nome "Ricerche" viene alla luce nel 2002 e
riguarda soprattutto i SS.Martiri Alfio, Filadelfo e Cirino, protettori di
Lentini, nonche' Ambrogio, Vescovo e Patrono di Milano. Tutti questi volumi,
pubblicati in pochissime copie, sono custoditi presso la Biblioteca Civica
di Lentini e presso la Biblioteca della Chiesa di S.Alfio. Nell'aprile del
2002 il Sindaco di Lentini Raiti premia il sig.Brancato con una targa per
aver donato alla Biblioteca Civica rari e preziosi testi di numismatica [
foto1
foto2
]. Infine per i meriti
della sua opera di ricercatore e studioso a Salvatore Brancato il 14-12-2002
viene conferito dall'Archeoclub di Lentini il Premio "Sebastiano Pisano
Baudo" 2002 [ foto
].
-
- Un salto nella storia:
copia de "La
Rinascita di Lentini - Elezioni
Amministrative del 6 Nov 1960" - di Lentinionline
- Riproponiamo un numero speciale del giornale
"La Rinascita di Lentini" pubblicato, a cura della Democrazia Cristiana in
occasione delle elezioni amministrative svoltesi a Lentini il 6 novembre
1960. Nelle 5 storiche immagini, che si commentano da sole e che per agevolare la
lettura, abbiamo mantenuto in formato a4 (attendere il caricamento), si
vedono i candidati e poi gli eletti della DC, nonche' alcune notizie
relative alla "Lentini" dell'epoca.
TORNA
AL SOMMARIO
-
IL MERCATO DEL GIOVEDI’ -
una festa per la città di Lentini ® di Carmela Vacante
Nella città di Lentini ( SR ), da tempo
immemorabile, il giovedì di tutte le settimane ( fatta eccezione per i
giorni festivi ), nell’area circostante lo Stadio comunale, viene allestito
un caratteristico Mercato, u GIOVEDDI’, che, via via, è diventato sempre più
grande, più ricco e più importante ed ha acquistato una rinomanza che si
estende a tutti i paesi limitrofi e oltre. Facendo delle ricerche sulla
origine di questo Mercato la mia curiosità è stata attratta da un libretto
“ I LUOGHI DELLA MEMORIA “- Toponimi e Immagini di Lentini - ( autori :
Cirino Gula e Francesco Valenti ), dove ho trovato l’origine di molti
curiosi toponimi, relativi ad alcune aree della città nelle quali, nel
passato, si tenevano Fiere e Mercati , e che , pur non avendo una specifica
attinenza con le origini dell’attuale Giovedì, indicano avvenimenti
commerciali che, nella storia della città, hanno avuto una grande importanza
e una certa rinomanza in tutto l’interland, per il movimento umano e di
merce che si veniva a creare : i “Buffetti “ e “ Supra a Fera “, la prima
ubicata tra via G. Verdi e Piazza Nazionale e la seconda, dai confini non
ben definiti, che va da via Piave e via Del Museo fino alla chiesa di Santa
Croce .
“…I Buffetti si rizzavano nelle festività di
Ognissanti e dei Morti e i titolari vendevano frutta fresca e secca …calia,
castagne secche, fichi secchi che costituivano, insieme a qualche gioco, il
regalo che “ i Morti “ lasciavano ai bambini buoni … “ “…Supra a Fera
“ indica l’area dove “…Sino agli inizi della seconda guerra mondiale, si
svolgeva una Fiera famosa e tra le più antiche di tutta la Sicilia , che
faceva accorrere gente da tutta l’Isola. La fiera , detta di S.Giorgio, si
svolgeva dal 18 al 21 Aprile e serviva per la vendita e per l’acquisto del
bestiame …I proprietari sostavano, il giorno prima della fiera, in periferia
e facevano il loro ingresso in paese contemporaneamente. Lo sparo di un
mortaretto dava il segnale che autorizzava l’ingresso degli armenti in città
( a trasuta da fera )… Accanto ai venditori di bestiame c’erano gli
ambulanti che vendevano attrezzi di lavoro e tutto ciò che aveva attinenza
con il bestiame e l’agricoltura come finimenti , zappe , scale ecc…” ( da “
I Luoghi della Memoria “ di Cirino Gula e Francesco Valenti ) . In seguito
la fiera , per motivi igienici, fu trasferita nell’area adiacente il Campo
sportivo, per poi scomparire del tutto nel 1948 per essere spostata da
Lentini a Melilli (vedi avvertenza del Sindaco del 30 Aprile 1948 ).
Intanto era sorto nella città , diventando a poco a poco sempre più
importante, il Mercato settimanale del Giovedì, con vendita di generi vari
tra cui tessili, mercerie, metalli, giocattoli, ecc., che era ubicato a
Piazza Umberto I dove rimase fino al 1946. Successivamente (vedi
comunicazione del Sindaco del 22 Genn. 1947 ) il “ Gioveddì “ fu
trasferito in Piazza Oberdan dove, ingrandendosi ulteriormente, rimase fino
agli anni settanta. Ricordo ancora con esattezza come erano sistemate le
varie mercanzie : l’area principale della Piazza Oberdan era totalmente
occupata dalle bancarelle dei tessili e delle mercerie che fornivano i
materiali necessari per una sorta di artigianato , il cucito su misura ,
molto diffuso nella zona e praticato anche a livello casalingo , ormai
scomparso quasi del tutto : non erano ancora decollate le grandi
industrie delle confezioni e la gente si “ vestiva” presso i bravi
sarti locali , i “ custureri “; la gran parte delle donne , poi , sapeva
cucire e ricamare e con tanta bravura e creatività , utilizzando scampoli
comprati al mercato con poche lire , riusciva a confezionare abiti e
altri indumenti per sé e per la famiglia , risparmiando molto . Il mercato
di frutta , ortaggi e , soprattutto , di formaggi e salumi , era ubicato
nella piazzetta prospiciente la Chiesa di Santa Maria La Cava , Piazza
Alemagna , a cui si accedeva salendo la monumentale scalinata , a tutt’oggi
esistente . Col passare degli anni il Mercato diventava sempre più grande e
più ricco di merce e pertanto si prospettava la necessità di trasferirlo in
un’area più consona per poter garantire una più ordinata e razionale
sistemazione delle centinaia di bancarelle e un’esposizione delle merci più
adatta alla fruizione da parte di tutti . Il trasferimento si rendeva
necessario anche per garantire una più scorrevole circolazione, e,
soprattutto, per lasciare libera da ingombri la via di accesso all’Ospedale
Civile . Il Mercato del Giovedì fu trasferito pertanto nell’area circostante
il Campo Sportivo occupando in un primo tempo anche via Dello Stadio ;
successivamente , sempre per motivi di traffico , il mercato fu spostato a
Largo Monreale e su tutte le strade adiacenti, estendendosi sempre di più
fino ad occupare anche il Largo Agre e altre strade , in un’area diventata
ormai tanto grande da non essere più molto gestibile. Il giorno del
Mercato, poi , gli abitanti della zona restano praticamente “ sequestrati in
casa “ per tutta la mattinata e parte del primo pomeriggio , per consentire
le operazioni di pulizia ; la sua attuale ubicazione , infatti , non
permette loro di utilizzare le macchine e non garantisce alcuna sicurezza
pubblica o di pubblica incolumità : non è possibile l’arrivo tempestivo di
un’autoambulanza o di altri mezzi di soccorso , per non parlare poi delle
condizioni igieniche, non del tutto a norma di legge. Il Mercato per un
breve periodo ( vedi delibera della Giunta Municipale del 29 Gennaio 1990 )
fu trasferito in Contrada Alaimo , nella cosiddetta zona 167, per consentire
i lavori di ripristino dell’acquedotto e della rete fognante esterna; in
tale zona rimase anche per il periodo immediatamente successivo al terremoto
di S.Lucia del 13 dicembre 1990, per ragioni di sicurezza; tale ubicazione,
eccessivamente decentrata , suscitò la disapprovazione e le proteste della
popolazione . Pertanto , rimosse le ragioni del suo temporaneo
trasferimento, il Mercato ritornò nella sua sede naturale , presso il Campo
Sportivo , dove è a tutt’oggi , con tutti gli annosi problemi dei quali si
discute sempre e che fin’ora non hanno trovato una soluzione accettabile. Le
diverse Amministrazioni comunali, hanno discusso spesso (l’Amministrazione
attualmente in carica ne sta discutendo ancora), sulla necessità di
trasferire questo mastodontico Mercato in altra sede; si è tornati a
proporre ancora la contrada Alaimo , la zona 167 ; sebbene l’area che pare
risulti la più idonea all’esigenza e su cui l’attuale Consiglio Comunale si
è pronunciato per un prossimo spostamento , sia il Largo Patti , che non è
molto distante dalla sua attuale ubicazione; qui verrebbero create anche
delle infrastrutture per la Protezione Civile e il Mercato si potrebbe
estendere fino ad occupare anche l’area circostante, attualmente agricola.
Questa nuova sistemazione dovrebbe garantire una migliore e più razionale
sistemazione delle oltre 350 bancarelle e un più preciso controllo da parte
dei Vigili Urbani , avendo solo due sbocchi : un ingresso e un’uscita ;
potrebbe servire anche per rivalutare un Quartiere un po’ “dimenticato “ e
portare una giusta soluzione a tutti gli innumerevoli problemi legati a
questo importante Mercato settimanale che fa parte della storia e
dell’immagine della città che ha dato i natali a Gorgia , a Iacopo
Da Lentini e tanti altri illustri Personaggi. Lasciando agli Amministratori
locali il compito di dirimere questa “ingarbugliata matassa “ devo
onestamente dire che oggi il ” Gioveddì “ costituisce per Lentini un
evento importante ma che , ogni giovedì , condiziona tutta la vita della
città , crea ingorghi al traffico , già caotico negli altri giorni : molte
strade vengono occupate dal Mercato e la circolazione automobilistica viene
dirottata su altre vie che , conseguentemente , si intasano a dismisura . A
questo si deve aggiungere il disordine che si viene a creare nelle strade
limitrofe tutte occupate anche dalle macchine degli avventori , parcheggiate
in maniera piuttosto caotica , nonostante l’attenta sorveglianza dei Vigili
Urbani ; ma non è possibile immaginare Lentini senza questo notevole
avvenimento settimanale , perché ormai fa parte integrante della vita di
questa città e costituisce una delle sue più importanti e caratteristiche
attrattive. Il volume di affari di questo grandissimo Mercato è
incalcolabile ed anche la città ne trae un certo beneficio economico e,
soprattutto , molto prestigio. All’alba di ogni giovedì , nelle zone
prestabilite , affluiscono mezzi di vario genere che trasportano ogni tipo
di merce e le attrezzature per montare le bancarelle . I venditori arrivano
anche da paesi abbastanza lontani quali Paternò , Adrano , Bronte , Catania
, Augusta , Siracusa , Ragusa , Modica, Vittoria , etc ; utilizzando gli
spazi loro assegnati , montano le bancarelle , aprono i caratteristici
ombrelloni giganti , espongono le loro merci disponendole nella maniera
esteticamente più gradevole e accattivante . Due strade , che nell’area del
Mercato formano una sorta di ali , di accesso e di uscita , sono totalmente
occupate dalle bancarelle e dai furgoni –frigorifero adibiti alla vendita di
frutta , ortaggi , verdura , pollame , pesce , formaggi , insaccati , dolci
, conserve e altri prodotti tipici della gastronomia tradizionale siciliana
e locale . Uno spazio non molto esteso , ma abbastanza frequentato, è
riservato agli agricoltori locali che vendono i prodotti stagionali e quelli
dei loro terreni tra cui le arance , i mandarini , i limoni , la cicorietta
selvatica , gli asparagi , gli amareddi (infiorescenze della senape
selvatica ) e l’ anciti (bietole selvatiche) molto usate nel nostro paese
per farcire la tipica focaccia lentinese detta cudduruni ; c’è poi un
angolo dove i vecchi pescatori vendono ancora il pesce d’acqua dolce
come le anguille, le tinche, i muletti (cefali) e i larunghi (rane)
che a noi lentinesi piacciono tanto e che ci hanno fatto guadagnare il
simpatico appellativo di larunghiari . Il grosso del Mercato , quello che
occupa l’area più estesa , è costituito dal settore dell’abbigliamento in
senso lato che è veramente ricchissimo di merce e spesso offre delle ottime
opportunità di acquisto a prezzi stracciati : scarpe , vestiti , pantaloni ,
cappotti , impermeabili , piumotti , pullover, costumi da bagno ,
biancheria intima , calze e accessori vari quali borse , cinture , sciarpe ,
coppole , foulards , ombrelli , etc… E poi , mescolati tra i vari generi,
aree destinate alla vendita di piante e fiori , veri e artificiali ;
bancarelle che vendono stoffe di ogni tipo , prodotti di profumeria ,
giocattoli , utensili per la casa , generi di merceria varia… C’è proprio
una grandissima scelta ed è difficile che chi si reca in questo Mercato
possa lasciarlo senza aver comprato qualcosa ; magari , poi , guardando
meglio a casa gli oggetti comprati ci si può pentire delle spese effettuate
, non tanto perché non valesse la pena spendere in una simile cosa , ma il
più delle volte perchè ci si lascia tentare dai costi molto contenuti e si
corre il rischio di acquistare cose superflue, inutili e che non ci
servono, o che non ci potranno mai servire.
Il “Gioveddì “ è il salotto della città; in
questo luogo si incontrano tante persone, si apprendono e si diffondono
notizie riguardanti matrimoni, nascite, funerali, avvenimenti vari… si
incontrano parenti, amici… si distribuiscono manifesti pubblicitari… Negli
ultimi anni si utilizza anche come luogo per fare propaganda elettorale… Nel
periodo che precede le elezioni si assiste alla sfilata dei candidati
importanti che, con un codazzo di sostenitori, girano per il Mercato per
farsi vedere e per accattivarsi le simpatie delle donne e, soprattutto, per
accaparrarsi i voti: quanti saluti e quanti complimenti si ricevono in quei
giorni carichi di souspance e di aspettative… quante amicizie nuove si
scoprono … C’è proprio da guardare e da sentire! E’ uno spettacolo per gli
occhi e un salutare divertissiment per la mente osservare tutta questa
umanità colorata e indaffarata che si muove tra le bancarelle , straripanti
di merce , trascinando ingombranti , quanto pericolosi , carrelli carichi di
spesa e spingendo , tra il caotico movimento delle persone , carrozzine con
bambini frastornati semisepolti da borsette di plastica piene di mercanzia .
Non mancano , poi , le piccole disavventure a cui spesso si va incontro: si
dimentica o si perde qualche cosa; si subisce qualche scippo… Tutto questo,
però, fa parte del colore di questo fantastico Mercato che esercita su tutti
un fascino e un’attrazione irresistibile e che, soprattutto le donne,
considerano un importante punto di riferimento e di incontri perché in esso
ognuna trova quello che cerca. Frequentano il "Gioveddì" anche donne
provenienti dai paesi limitrofi quali Carlentini, Scordia, Pedagaggi,
Francofonte utilizzando estemporanee navette a pagamento messe a
disposizione da privati che approfittano dell’occasione per fare un po’ di
quattrini. Anch’io vado spesso al Mercato del giovedì e non solo per fare la
spesa . Mi attirano molto i colori , il movimento della gente , le scenette
che si svolgono tra le bancarelle e in mezzo alle strade , i capannelli di
“ incontri “ che creano ingorgo al flusso dei frequentatori più frettolosi
ed impazienti. E’ un mondo che mi affascina e con il mio innato spirito di
osservazione riesco a coglierne gli aspetti più caratteristici e a trarne
ispirazione per le mie pitture o per comporre qualche poesia, come quella
che chiude queste mie osservazioni e che credo colga assolutamente l’essenza
di questo importante avvenimento settimanale e ne mette in risalto gli
aspetti più caratteristici con garbata e un po’ graffiante ironia .
U GIOVEDDI’ -
Stu iornu da simana e fimmini ci scoppa ‘nta testa ; / si susunu magari
cchiù tisi , ci pari na festa ! / ‘Nta na vulata li subbizza si
fanu / e , poi , tirannu u carrellu , o mercatu si ni vanu . /
Tutti li posti e li bancarelli iddi si furriunu : / taliunu ,
arriminunu , pigghiunu , posunu…nun posunu ! / Si fermunu a parrari cu
parenti e cummari / ‘nmenzu a la strada , co piriculu di cascari.
/ E li genti ca sa n’ha vinniri li so cosi / unghi e siddiati i
mannunu a ddu paisi. / E quanti cosi accattunu ccu l’Euru cummattennu
; / e quantu tempu perdunu ddi centesimi cuntannu ! /
S’accattunu u frummaggiu , u baccalaru , i pira , u pumaroru ; / a
lattuga , a sinapa e l’anciddi ( a pisu d’oru ) ! / S’accattunu i
vistini , i coffa , i causi i cammisi, / i russetti , i
giocattoli p’addevi , e tanti cosi aruci ; / i scappi , i buttuna , i
quasetti e a biancheria / ca , senza russura , si provunu ‘nmezzu a la via!
/ Si carricunu comu e scecchi ccu borsi e bursittini; / pari c’ha
veniri a guerra o , di lu munnu la fini! / E , poi , quanta genti
s’incontra a dda iurnata , / magari pirsuni can un s’avevunu vistu ppi
n’annata . / Pari ca tutti sa n’ha datu appuntamentu , / pi
cuntarisi li peni , cu tantu lamentu. / U giovedì , ppi stu paisi , è
propriu na iurnata speciali / picchì ‘nda ddu iornu si teni u mercatu
generali. / Però è , magari , a iurnata de scippi e de fregaturi salati: /
tra borsi rubbati e cosi fraciti , ppi boni pagati, / ognuna s’arritira a
casa stanca e avviluta assai, / e fa lu prupositu di nun ci turnari acchiù…mai
! / Ma poi passa tutta na simana intera , / e agghiorna lu “santu giovedì”,
iurnata di fera. / Senza pinsari acchiù a chiddu c’ha passatu / ognuna s’abbessa
di cursa e addizza ppò mercatu. / Certu ca è un modu di passari na
mattinata spensierata, / ‘nmezzu a tanta genti c’addiventa sempri cchiù
arraggiata. / Accattari , parrai , sparrari , camminari e taliari / è la
megghiu cura ppi li nervi abbaciari. / E accussì ogni simana di tutti li
misi, / specie li fimmini , arditi e tisi / si dununu appuntamentu a stu
mercatu, / tantu disprizzatu , ma da tutti anningatu. ® Carmela
Vacante
-
TORNA
AL SOMMARIO
-
Gaetano da Lentini: ambasciatore dei randagi
- a cura dell'associazione P.A.C.E. di Lentini (Giu 2009)
Qualche
settimana fa su face book c’era un appello “Qualcuno ha visto di
recente Gaetano? Rispondete, per favore, non lo vedo da tempo e
sono preoccupata!” Frasi così a casa o tra amici li sentiamo
spesso: chiunque non vede Gaetano per pochi giorni va a chiedere
in giro notizie. Personalmente devo confessare che ogni volta
che Gaetano mi si avvicina e mi saluta con una strusciata di
testa o di spalla, dopo averlo accarezzato per ricambiare, mi
guardo in giro fiero, come per dire “Vedete? Io sono suo amico”.
Tutti così, ormai a Lentini. Ma per noi Gaetano non è solo
l’amata mascotte della città, né soltanto il cane di tutti e
neppure solamente il personaggio che ci aiuta a rompere il
ghiaccio con gli sconosciuti senza dovere fare ricorso alle
condizioni meteorologiche; egli è anche il più grande
diplomatico inviato dal mondo animale in quello degli uomini per
avvicinare le due le due specie; il personaggio che ha fatto
aumentare enormemente la capacità di esprimere amore e affetto
dei lentinesi; una bandiera attorno alla quale ci ritroviamo
come comunità. Una volta “lintinisi larunchiari” oggi “lintinisi
gaetani”. Forse è giunto il momento di modificare lo stemma
della città: al posto del leone, Gaetano placidamente sdraiato
all’ombra della Torre. Ma lui sicuramente ci chiede altro: un
po’ d’amore e di attenzione in più anche per i suoi fratelli
meno noti e fortunati e una mano a quel gruppo di
Angeli-Santi-Eroi dell’associazione PACE che spendono buona
parte della loro vita per proteggere, nutrire, curare,
salvaguardare Gaetano e i suoi fratelli. Dal Blog di
Guglielmo Tocco
|
-
- Nella
Piccolo e "La voce dell'anima" -
di Lentinionline
- Nella Piccolo è nata a Carlentini e qui
e' vissuta da sempre. E' venuta a mancare nel 2005 ormai
ultranovantenne. La sua vita,
segnata da dure prove, è stata sempre ricca di interessi estetici. Il suo
spirito ha viaggiato in un universo popolato di immagini
fantastiche, alimentato dalla fervida immaginazione di un cuore di
fanciulla. Per non dimenticare.. vogliamo qui rendere omaggio alla sua poesia e alla sua
alta "Voce dell'anima".....
-
TORNA
AL SOMMARIO
-
- Tutte le sere, quando stavano per
chiudere la bottega di generi alimentari e gli avventori si facevano
più radi, i miei genitori preparavano tutto quello che sarebbe
servito il giorno dopo. Specie nel periodo delle arance aprivano
molto presto perché tra le cinque e le sei del mattino
scendevano da “ Sopra la fiera “ le incartatrici ( i ‘ncattaturi )
per recarsi ai magazzini ( e miazzè ) per lavorare le arance e si
fermavano nella nostra bottega per comprare il mangiare per la
giornata (.....)
-
-
Salvatore Lazzara: il Partigiano Matteo - di Gianni Failla (dal libro "Siracusani in cammino"-Ed.Cammino-2006)
- In un libro la drammatica storia di
un partigiano, a distanza di ben sessant’anni, per un’ansia di
chiarezza e verità. Il decano dei giornalisti della nostra provincia,
il dottor Giuseppe La Pira, ha intelligentemente recuperato le
memorie di vita partigiana dell’ormai ottantatreenne avvocato
penalista lentinese Salvatore Lazzara, riannodando straordinari
ricordi di dure esperienze, che hanno marcato indelebilmente gli
anni del giovane universitario della nostra terra, sottotenente di
complemento a Settimo Torinese, proprio all’indomani dell’otto
settembre del 1943. In quell’atmosfera di tragico sbandamento, di
completo disordine, di diaspora generalizzata, Salvatore Lazzara
nella lontana cittadina di Settimo Torinese, sciolto ormai
l’esercito del Regno d’Italia, imparò a vivere in libertà di
pensiero e di azione con la scelta di campo della “Resistenza”. A
costo della propria vita, il giovane Lazzara passò alla
clandestinità e si unì alle formazioni partigiane, con il rischioso
compito di contrastare in Settimo Torinese e dintorni le forze
armate nazi‑fasciste.
- Eroismi e viltà - Assunse
presto il comando della formazione “Brigata Patria”, combattendo da
protagonista con il nome di “Matteo”, in prima linea, affrontando
contro i nemici i gravi pericoli di una lunga lotta armata. Le sue
responsabilità partigiane divennero sempre più pesanti e difficili
tra conflitti a fuoco, vendette, morti, rappresaglie, imboscate,
sabotaggi, eroismi e viltà, orrori che non stavano mai soltanto da
una parte o dall’altra, in lontane e tragiche giornate da rileggere
anche criticamente, ed ancora oggi non “decantate”, nonostante la
buona volontà di molti. Salvatore Lazzara, dopo oltre un anno e
mezzo di azioni partigiane, venne catturato dai “brigatisti neri”,
proprio a Settimo Torinese, il 3 marzo 1945. Trasferito a Torino
nella Caserma Cernaia, subì continui maltrattamenti e pestaggi. Lo
attendeva ormai la fucilazione oppure la deportazione in Germania,
ma ‑ a pochi giorni dalla Liberazione ‑ fu rilasciato grazie ad un
provvidenziale “scambio di ostaggi”. Il “partigiano Matteo” rimase a
Torino sino al 25 aprile del ’45, sino al sorgere di quella nuova
alba di speranza per l’Italia. A Settimo, riprese il comando della
sua brigata, liberando la città dalle Brigate Nere. Divenne il Primo
Comandante Partigiano della Piazza di Settimo “libera”, formando la
polizia del popolo in difesa della democrazia.
- Il rientro - Successivamente
le formazioni partigiane, deposte le armi, cedettero il posto ai
politici e spuntarono i soliti mestatori opportunisti. Per le strade
del Nord si videro marciare tanti “partigiani”, tali divenuti
soltanto dopo aver fiutato la direzione del vento. Salvatore Lazzara
fu insofferente, sorpreso per la corsa allo scavalco ed ebbe anche
nostalgia per la sua terra. Presentate le dimissioni, contrastate ma
comprese, fu autorizzato e rientrare in Sicilia. Con una presuntuosa
Fiat Topolino, iniziò la sua corsa verso il Sud, verso Lentini. Poi,
finalmente, l’abbraccio con i genitori ed il ritorno allo studio,
alla vita quotidiana, alla famiglia ed al lavoro. La città di
Settimo Torinese però non dimenticò mai quel giovane partigiano e
nel 1981 conferì all’avvocato Salvatore Lazzara, “Matteo”, la
cittadinanza onoraria, con pergamena consegnata solennemente, il 25
aprile, nel corso delle manifestazioni celebrative dell’anniversario
della Liberazione. Nel frattempo i diari di “Matteo”, le memorie di
quegli avvenimenti, continuavano a restare nel cassetto più segreto
della scrivania del penalista lentinese. La polvere vi si adagiava
inesorabilmente giorno dopo giorno, sino a quando La Pira, vincendo
le ultime riluttanze di Lazzara, non li ha portati alla luce,
mettendovi ordine, “facendoli parlare senza enfasi o frasi fatte”,
mantenendoli entro i confini di quelle forti esperienze di storia,
affidate adesso alle doverose riflessioni dei figli del Duemila.
|
-
-
Padre Sebastiano Castro: tra la gente, con discrezione
- di Gianni Failla (dal libro "Siracusani in cammino"-Ed.Cammino-2006)
|
Sebastiano Castro
era nato a Lentini il 18 giugno 1929. Dopo gli anni ginnasiali,
con la guida spirituale di don Giovanni Di Grande, entrò
sedicenne nel Seminario arcivescovile di Siracusa. Al termine
degli studi, il 29 giugno 1952 dall’arcivescovo mons. Ettore
Baranzini venne ordinato sacerdote ed assegnato a Melilli quale
vice parroco di don Sebastiano Marino nella chiesa madre. Dopo
circa cinque anni padre Castro fu trasferito a Lentini nella
chiesa madre di mons. Francesco La Rosa. Nella sua città natale
si inserì bene senza mai voler apparire protagonista. Eppure le
successive vicende della Chiesa lentinese lo portarono presto ad
assumere un ruolo di primissimo piano, nonostante la sua
propensione a non voler fare la “carriera” di parroco. Nel 1966
venne infatti chiamato dall’arcivescovo mons. Giuseppe
Bonfiglioli a succedere, nella storica ex cattedrale, a don
Giovanni Maria D’Asta, del quale era stato vicario dal 1963 per
tre anni. Da allora è stato arcidiacono‑parroco della matrice di
Lentini, ininterrottamente per trentaquattro anni, assumendo per
alcuni periodi anche l’incarico di vicario foraneo per le
tredici parrocchie dei comuni di Lentini, Carlentini e
Francofonte. |
La sua vita si
innervò generosamente con quella di migliaia di persone. È stato
localmente il sacerdote delle grandi e piccole occasioni. Uomo
dalla tenace speranza, contro ogni cocente delusione, in decenni
di forti transizioni sociali e morali, nella difficile Lentini
ha saputo essere profondamente fedele alla Chiesa. Parroco
paziente e saggio, punto di incontro per preti e laici,
intransigente sul piano dei principi veri. Sempre tra la gente
con discrezione, attento a non cadere nelle trappole degli
errori. Legato con zelo alla festa patronale di S. Alfio,
patrimonio secolare di tante generazioni di lentinesi; attento
pure alle buone tradizioni, sensibile ai robusti richiami di una
terra ricca di storia. Poi, beffardamente, la salute non lo ha
più sorretto in questa quotidiana fatica a servizio dell’Uomo di
fine millennio. Mons. Castro nel maggio del Duemila ha dovuto
lasciare la sua terra, la sua gente, i suoi amici, pur rimanendo
fortemente legato a tutto ed a tutti: si trasferì ad Ostia Lido,
assistito amorevolmente dalla sorella e dai suoi familiari. Nel
giugno del 2002, con i confratelli della diocesi e con la gente
della sua Lentini, volle festeggiare i cinquant’anni di
ordinazione sacerdotale. Assieme all’arcivescovo mons. Giuseppe
Costanzo, nell’affollatissima chiesa di S. Alfio visse momenti
d’intensa commozione, circondato dall’affetto e dalla stima di
centinaia di amici. Alcuni però, con amarezza, notarono un
preoccupante aggravamento delle sue condizioni di salute. Mons.
Castro dovette ritornare ad Ostia, ma confidava teneramente il
suo vivo desiderio di tornare a lavorare in diocesi... se avesse
potuto. Questo suo legame con il territorio era più forte di
quanto lui stesso non avesse inizialmente pensato. Poi,
sfortunatamente, il suo fisico crollò in maniera precipitosa,
lasciando in tutti un senso di tristezza ed umana impotenza.
Morì a Roma il 12 febbraio 2003. In occasione dei funerali, a
Lentini i presenti seppero cogliere ancora tutta la profondità
della sua generosa anima sacerdotale. |
Pippo Centamore: un caro ricordo
- di Lella Nigroli (dal periodico "Murganzio" di Salvatore
Martines-Ott 2008)
|
Sono già passati tre anni dalla sera
in cui mi è stata comunicata la improvvisa, ed assolutamente
inaspettata, morte di Pippo Centamore. Lo avevo visto la mattina
in Tribunale; sembrava in perfetta forma fisica, anche se
qualche tempo prima aveva subito un piccolo intervento
chirurgico, ed era sereno e gioviale. Non potevo crederci, non
poteva essere vero che, ad appena qualche ora di distanza, quel
Pippo che avevo incontrato e con il quale ci eravamo
intrattenuti a parlare, fosse morto. Di Lui ho ricordi legati al
mondo del lavoro, e della professione forense. L’ho conosciuto
nel 1986 quando era Vice Segretario Generale del Comune ed io
vinsi il concorso di Capo dell’Ufficio Legale dell’Ente. Nello
svolgimento delle proprie funzioni si è sempre contraddistinto
per le doti di equilibrio e di obiettività. Ha fatto sempre
prevalere la legittimità degli atti e l’interesse del Comune
prescindendo dalle proprie idee politiche, a tutti ben note.
Abbiamo lavorato solo per qualche anno insieme, perché presto
egli decise di lasciare quel mondo al quale aveva dedicato i
suoi anni migliori, per intraprendere la professione di avvocato
del libero foro. Nel frattempo, io ho avuto modo di raccogliere
la sua difficile eredità e, da circa 15 anni, ricopro oltre che
il ruolo di Capo dell’Ufficio Legale, anche l’incarico di Vice
Segretario Generale al Comune di Lentini.
|
Anche dopo il suo
collocamento in pensione, l’Avvocato Centamore ha continuato ad
essere per la nostra Città un punto di riferimento sia per le
problematiche legate alla gestione del Comune che nel campo del
Diritto amministrativo, ricoprendo, nell’ambito dello stesso
Ente, incarichi prestigiosi, quali quello di “Esperto del
Sindaco”. La grande esperienza maturata nei lunghi anni di
lavoro dipendente gli consentiva di essere sempre prodigo di
consigli, come con chi scrive, anche con tutti i dipendenti del
Comune che lo interpellavano frequentemente per sottoporgli
qualunque genere di problema. Ancora oggi, nello svolgimento del
mio lavoro, mi capita di trovare appunti scritti di suo pugno, e
spesso mi ritrovo a pensare che, se fosse ancora fra noi, non
esiterei a consultarlo per confrontarmi e ricercare insieme le
migliori soluzioni per tematiche di particolare complessità. Di
lui ricordo ancora l’attaccamento alla famiglia ed in
particolare il grande amore per il nipotino Carlo, la cui
nascita trasformò l’uomo, apparentemente inflessibile e
rigoroso, in un nonno amorevole e tenero. Purtroppo il destino
ha voluto che questa nuova dimensione della Sua vita, spesa
oltre che per la famiglia ed il lavoro anche per la politica
attiva che più volte ha avuto necessità della sua esperienza e
della sua autorevolezza, non avesse lunga durata. Lella
Nigroli |
|
Luigi Briganti è nato a Lentini
(Siracusa) il 24 aprile 1924. Il padre, Vito, era originario di
Sortino (Siracusa) dove faceva il contadino, e la madre,
Sebastiana Gaeta, era fornaia. Dalla loro unione, prima di
Luigi, era nata una figlia, Concetta, deceduta all'età di
sessantaquattro anni. Pur essendo dunque di origine contadina,
condizione da sempre in Sicilia dura e difficile e fonte di
grandi sacrifici e di continue privazioni,il giovane Luigi, dopo
le scuole dell'obbligo, venne avviato agli studi superiori e
frequentò il liceo classico nel collegio "San Michele" di
Acireale (Catania). Nel maggio 1943, all'età di diciannove anni,
Luigi dovette interrompere gli studi perché l'Italia fascista,
in guerra dal 10 giugno 1940, aveva bisogno di tutti per
combattere a fianco dell'alleato nazista.Fu destinato nel nord,
a Ivrea (Torino), al 64° Reggimento di fanteria. Qui gli toccò
adattarsi a un diverso modo di vivere e si trovò a fare nuove
esperienze, che lo portarono a scelte decisive per tutto il
corso della sua esistenza, a divenire protagonista, suo
malgrado, di imprese leggendarie. Dopo pochi mesi che aveva
indossato la divisa, Luigi si trovò, come tanti altri giovani,
ad assistere alla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, e,
dopo quarantacinque giorni, allo sfacelo dell'esercito italiano
dopo l'armistizio dell'8 settembre. |
Allora sembrò crollare tutto
intorno a lui, non poté neppure raggiungere la sua terra, perché
l'Italia era ormai divisa in due tronconi: la Sicilia e il sud
erano infatti stati liberati dagli eserciti interalleati con lo
sbarco in Sicilia (9 luglio 1943) e a Salerno (9 settembre
1943). Sugli eventi che vanno dall'8 settembre 1943 alla fine
dell'inverno 1943-'44, Luigi Briganti racconta:«L'armistizio del
settembre 1943 mi sorprese a Ivrea. Dal maggio, allora avevo
diciannove anni, prestavo serviziomilitare nel 64° fanteria. I
meridionali erano molti e molti furono infatti poi i meridionali
partigiani. «C'era una confusione immensa. Noi ci eravamo
allontanati ed eravamo giunti vicino a Boves, proprio al momento
dell'eccidio. I tedeschi per la rabbia avevano dato alle fiamme
molte case, avevano bruciato un industriale e un prete. E
allora, dinanzi a tanta ferocia, decidemmo di combattere. «Mi
unii al comandante Rino Giuseppe Rigola. Diventaiun partigiano.
Mi vestivo da prete, da contadino, da donna e portavo messaggi
nei paesi circostanti, agli altri comandanti partigiani, a
Torino, agli operai, ai tramvieri, per spingerli allo sciopero.
Tedeschi e "repubblicani" smantellavano tutto, ferrovie,
fabbriche, e questo allora bisognava evitarlo. Partecipavo alle
azioni di guerriglia. Si affrontavano i carri armati con le
bottigliette incendiarie, si distribuivano volantini per cercare
di evitare che i giovani si arruolassero nelle formazioni
fasciste. «Ai primi di marzo 1944, nel corso di un'azione
isolata contro impianti militari delle truppe nazifasciste allo
scopo di reperire armi e munizioni, caddi prigioniero in mano
nemica. I tedeschi avevano una mia foto; non so come, ma
l'avevano. Sapevano chi era il comandante "Fortunello". Mi
portarono nelle carceri di Casale Monferrato e subito mi
chiesero di rivelare nomi, nascondigli e programmi delle
formazioni partigiane. Se avessi parlato, avrei fatto crollare
il movimento della Resistenza in Piemonte. Dinanzi al mio
mutismo iniziarono le sevizie più feroci. Io dicevo soltanto:
"Non potete, non potete trattare così un uomo!". Erano bestie.
Pregavo tanto che la morte mi soccorresse».Per il suo periodo di
detenzione e per il suo processo presso le carceri di Casale
Monferrato, ci avvaliamo della testimonianza di un ex ufficiale
della "X M.A.S.", che ci dice: «Nel febbraio del 1944 ero
ufficiale di collegamento tra le Forze armate della R.S.I. e il
Servizio segreto del Comando militare tedesco, posto agli ordini
del generale Wolf. I Servizi militari di informazione
segnalavano, quale elemento assai pericoloso e di molto
coraggio, il partigiano "Fortunello", alias Luigi Briganti, che,
travestito da contadino, spesse volte scendeva dalle valli
piemontesi a Torino per prendere contatti con il Comitato di
liberazione nazionale, portando a compimento con estrema audacia
azioni di guerriglia partigiana. Ai servizi di informazione era
stata fornita, da persona di Cigliano (Vercelli), una fotografia
del Briganti; questa pertanto fu diffusa in tutti i comandi
militari sia tedeschi che italiani e sul Briganti fu posta una
forte taglia con l'ordine di sparargli a vista. La sua presenza
era spesso segnalata a Ciriè, Caselle, Caluso, Strambino, Ivrea
e in quasi tutto il Canavesano e nelle valli. «Un giorno da
Casale Monferrato giunse notizia che, durante un'azione contro
impianti militari, era stato catturato il partigiano "Fortunello",
e in quell'occasionemi fu ordinato di recarmi sul luogo onde
interrogare, per conto del Servizio militare informazioni
italiano, il prigioniero. «Lo trovai in una cella. Era
orripilante per le inumane sevizie subite da parte dei tedeschi,
e pertanto rivolsi le mie rimostranze al comandante del reparto
tedesco per questo modo di agire non consono allo spirito
latino. « Durante l'interrogatorio del Briganti, mi resi conto
del suo amore di patria, al di sopra di ogni fazione politica, e
fui commosso dalle sue splendide parole e rimasi sinceramente
ammirato, anche perché si trattava di un mio conterraneo.
Dall'interrogatorio si passò a un cordiale colloquio, nel corso
del quale Briganti affermò che avrebbe stoicamente affrontato
ogni tragica conseguenza del suo operato, fiero del dovere
compiuto per un bene supremo. «Quel ragazzo con cui parlavo non
aveva che diciannove anni e un viso più da imberbe che da
adulto. Sebbene militante in altro campo, mi resi conto che
chiunque combatte, anche dalla parte opposta, con coraggio, con
spirito ardimentoso, merita il rispetto dell'avversario. «I
rapporti tra me e Briganti divennero fraterni e amicali, tanto
che mi offrii quale suo difensore a un processo sommario che gli
venne fatto dai tedeschi, al termine del quale fu condannato
alla pena capitale mediante fucilazione alla schiena. Ancora
oggi ricordo la sua reazione, il suo ultimo grido, che fu quello
di "Viva l'Italia" e il suo ultimo desiderio che fu quello di
essere fucilato al petto». La sera del 20 marzo 1944, Luigi
Briganti, condannato a morte, chiese e ottenne di incontrarsi
con un sacerdote suo amico di Livorno Ferraris (Vercelli) e in
quella occasione gli consegnò una lettera da recapitare ai suoi
genitori a Lentini, lettera che non giunse mai a destinazione,
in quanto Briganti fu liberato dai suoi compagni e il prete
consegnò poi il documento agli archivi partigiani di Torino alla
fine della guerra. Lo scritto del partigiano "Fortunello",
redatto il 20 marzo 1944 nelle carceri di Casale Monferra,
diceva: "Cari genitori, mai sono stato calmo come in questo
momento; so che fra poche ore per me sarà finita per sempre.
Sono contento di aver fatto il mio dovere per la patria
immortale e per la guerra partigiana. Contro i nazifascisti io
non ho rimorso; ma l'avranno loro quando punteranno le armi
contro di me per assassinarmi.Dò i miei diciannove anni alla
patria e cadrò contento per questa nostra Italia di martiri e di
eroi, sicuro che in un domani ritornerà la libertà a questo Nord
Italia ove i tedeschi con l'aiuto dei fascisti di Salò spogliano
le nostre industrie e portano via in Germania anche le rotaie
ferroviarie e spargono il terrore tra il popolo.Perdonatemi,
papà e mamma, se vi ho fatto soffrire. Vi prego di non
piangermi; stanotte per la prima volta mi sono confessato e
comunicato, appagando il vostro desiderio; però convinto
dell'esistenza divina. Vi raccomando il mio nipotino Filadelfo e
insegnategli ad amare la patria con tutto il cuore e a seguire
la via dell'onore. Sono cattolico e certamente, come il mio
confessore mi ha detto, io che ho il corpo martirizzato, troverò
conforto e la mia anima si unirà a quella degli altri miei
compagni caduti per la libertà. Non ho tradito nessuno: avrei
potuto salvarmi, ma al tradimento ho preferito la morte. Ricordo
tutti i miei parenti e amici e desidero che il mio corpo venga
portato al cimitero di Lentini. Bacio voi, papà e mamma, mia
sorella, i miei nipotini, mio cognato. Pregate per me. Vi bacio
forte, forte. Vostro indimenticabile figlio Luigi Briganti, "Fortunello
della Garibaldi". Valle di Lanzo. W l'Italia, W i partigiani. 20
marzo 1944".Del processo e della sua liberazione, "Fortunello"
ci racconta: «Processo? Una farsa. In pochi secondi un tribunale
tedesco mi condannò alla fucilazione alla schiena. lo protestai.
"Non sono un bandito", dissi, "lo sono un partigiano. Dovete
fucilarmi al petto". Un ufficiale della "X M.A.S." ebbe un
pizzico di pietà e mi consigliò di ubriacarmi prima di
affrontare il plotone di esecuzione. lo chiesi solo un po'
d'acqua per lenire il dolore delle ferite che mi martoriavano le
carni, ma mi fu rifiutata. Mi buttarono addosso le mie stesse
urine, che tenevano da parte. Solo un prete, un cappellano, mi
diede un po' di sollievo. Mi diede la sua fascia. "Cosi", mi
disse, "sentirai meno freddo". Si strappò la camicia e mi fasciò
le mani insanguinate. «All'alba mi portarono vicino a un
torrente per fucilarmi. Mi misero lì, io ero già mezzo morto per
il dolore, le fratture, dagli occhi non ci vedevo. Quanto sentii
crepitare i moschetti, gridai "Viva l'Italia!". Ma i colpi di
moschetto non erano dei tedeschi, erano dei partigiani venuti a
salvarmi. Così mi ritrovai sopra un camion con i miei compagni
che mi abbracciavano. Mi portarono nel Canavese per curarmi. A
Torino fu prelevato il professor Dogliotti e fu proprio il
celebre medico a mettermi su e a ridarmi di nuovo le forze per
tornare in montagna».Negli attimi che precedettero il
trasferimento dinanzi al plotone di esecuzione, il 21 marzo
1944, in un vigneto sulle colline del Monferrato, fu scattata
una fotografia, che pubblichiamo e che da sola commenta le
condizioni in cui era stato ridotto il partigiano. Non si è mai
saputo da chi questa foto sia stata scattata, né come poi finì,
anch'essa, negli archivi partigiani di Torino. Briganti,
sfuggito alla fucilazione con i suoi compagni di lotta, operò
nell'alto Monferrato quale comandante di un distaccamento della
42a Brigata "Vittorio Lusani" dell'11 Divisione "Patria
Monferrato", nel Vercellese e nel Torinese, nelle zone di
Moncrivello, Villareggia, Mazzé, Vische, Strambino e Ivrea. È in
questo periodo che "Fortunello" incorse in un secondo drammatico
episodio, che così lui stesso ci racconta:«Sì, fu nel marzo del
1945. Eravamo in montagna, nel Vercellese. La neve era ancora
alta. lo mi trovavo in una cascina con un ex ufficiale della "X
M.A.S." che aveva disertato e si era unito a noi. Con i
disertori i repubblichini erano spietati. Vennero a cercarlo,
perché qualcuno, forse, aveva detto di averlo visto dalle nostre
parti. Quando giunsero, io ero con questo ufficiale; forse lo
videro. Sta di fatto che io lo nascosi in un buco dietro il
caminetto e accesi il fuoco, misi una scodella con del latte
sopra e feci finta di niente. "Un disertore? Mai visto", dissi.
Ma loro non mi credettero. Dicevano: "Noi lo abbiamo visto da
lontano. Tu lo conosci. Dov'è?". Non parlai. Se lo avessero
scoperto, avrebbero passato per le armi me e tutti gli abitanti
delle cascine vicine. Avevo già sfidato la morte una volta, ci
provai per la seconda. Mi bastonarono, mi colpirono alla testa e
al petto con i calci dei moschetti. Mi tramortirono e mi
trascinarono legato a un carro sulla neve per centinaia e
centinaia di metri. Le donne del luogo si misero tutte in
ginocchio e chiesero pietà per me».Il padrone della cascina,
testimone oculare, così ricorda l'avvenimento: «Briganti venne
picchiato e schiaffeggiato e minacciato di morte. Erano presenti
anche quelli delle cascine Moglietta e Margherita e il
comportamento eroico di Briganti strappò l'ammirazione di tutti.
Gesto veramente valoroso, che solamente i veri patrioti della
tempra di Briganti potevano compiere in quel periodo pieno di
rischi. La cascina venne messa sottosopra, ma non trovarono il
Vaudagna (l'ex ufficiale della "X M.A.S."). Sacrificando se
stesso, il Briganti aveva salvato la vita di Vaudagna, della
moglie Noretta, della figlia Maura, del sottoscritto, di mio
figlio Dino, di mia figlia Irma, la cascina che volevano
bruciare e il bestiame. Il suo gesto lo rese popolare nella
zona. Briganti venne tascinato nel carcere di Cigliano, ma non
tradì nessuno, sebbene venisse ancora picchiato. Dopo si seppe
nella zona che i partigiani volevano liberarlo, ma vennero
arrestate le staffette di Moncrivello e l'azione fallì. Poi lo
portarono a Torino. Il ricordo di questo giovane valoroso e
coraggioso è rimasto vivo nella zona e noi gli siamo sempre
riconoscenti». Anche il parroco e il viceparroco convalidano i
fatti sopraesposti. Un altro testimone oculare, un ex impiegato
del Comune di Cigliano,segretario del Fascio repubblicano di
Cigliano e commissario prefettizio del Comune di Moncrivello
durante la Repubblica di Salò, in una dichiarazione firmata
davanti al sindaco di Masserano (Vercelli), così dichiara: «Su
Briganti pendeva un mandato di arresto. Un giorno che non posso
precisare, essendomi recato per dovere di ufficio presso il
Comando R.A.P .(Reparti Anti Partigiani) e precisamente dal
maggiore Terzoli, ho potuto vedere il Briganti nella sede del
Comando stesso circondato da militi, tra cui vi era il tenente
Spadoni. Seppi in seguito che Briganti era stato catturato nella
zona di Moncrivello dagli stessi militi; rinchiuso nel carcere
del Comando, era stato più volte percosso al fine di estorcergli
delle notizie riguardanti i movimenti e le operazioni
partigiane. Posso affermare che il giovane partigiano dimostrò
sempre una temerarietà e un coraggio non comuni, che lo resero
famoso nella zona, grazie ai quali diversi altri partigiani
furono salvati dalla sicura fucilazione e dalle rappresaglie.
Esempio tipico, noto a tutta la zona moncrivellese e ciglianese,
quello del sottotenente medico veterinario Vaudagna, a cui salvò
la vita nascondendolo in una botola e facendosi seviziare pur di
non dire parola al suo riguardo». Briganti così prosegue il suo
racconto:«Una mattina venne il maggiore Terzoli e disse,
rivolgendosi a me e agli otto alpini della R.A.P. e alle due
staffette che dovevano (d'accordo con i partigiani) bloccare le
armi automatiche che davano sulla piazza: "Vi fucilo sotto il
campanile della chiesa", luogo dove già erano stati fucilati tre
partigiani, "come traditori e Briganti come partigiano". Essendo
ferito gravemente alle gambe, protestai perché volevo morire in
piedi e porgere il mio petto al nemico. Intervennero subito gli
alpini Romagnoli e Belli, che mi sollevarono di peso dicendomi:
"Moriremo tutti in piedi abbracciati per la patria". Una volta
fuori dal carcere mi portarono a Torino. Gli alpini furono
portati a Santhià e liberati il 25 aprile. A Torino subii
maltrattamenti e torture alla caserma Lamarmora di Via Asti e
duri interrogatori al comando della Controguerriglia. Non
essendoci posto alle "Nuove", mi portarono all'ultimo piano
della caserma Cavalli, mi scaraventarono a terra in un luogo
senza vetri, dove il freddo era pungente.«Un giorno portarono
trentasei ostaggi. I partigiani in uno scontro a Ceresole d'Alba
avevano ucciso quattro tedeschi, quindi preparavano la
rappresaglia. Tra gli ostaggi c'era il dottor Silvio Aragno,
nipote del prefetto di Pavia Tuminetti, che subito si avvicinò a
me e, vedendo che sanguinavo a causa delle botte ricevute, si
fece dare i fazzoletti di alcuni ostaggi e mi medicò alla
meglio. Per suo interessamento gli ostaggi non vennero fucilati
e lui si rifiutò di tornare in libertà. Ma il Comando tedesco
voleva la rappresaglia. Incominciò così la retata degli ostaggi.
lo venni prelevato di peso e portato sul camion; ma prima di
partire tutti si strinsero attorno a me abbracciandomi. La
rappresaglia doveva avvenire in Piazza Castello, per dare un
esempio, così dicevano, ma per fortuna non avvenne. Mi
prelevarono invece le S.S. tedesche che mi portarono al Comando
germanico. Dopo alcune sere, su di una autoambulanza, venivo
portato prima a Caluso Canavese e dopo all'ospedale di Mazzé e
scambiato con alcuni ufficiali tedeschi catturati dai partigiani
in Valle d'Aosta. «Così finii in ospedale. Camminavo con le
stampelle e con esse il giorno della Liberazione salii su un
camion e, imbracciando un mitra,partecipai alla liberazione di
Torino. La 42a Brigata si ritirò a Crescentino e il comandante
Renato mi portò al Comando della 11 Divisione "Patria" a Casale
Monferrato, dove ebbero per me parole di incoraggiamento e di
augurio per la mia salute. Poi tornai a casa. «Da due anni i
miei non avevano più notizie. Erano sicuri della mia morte.
Trovai loro in lutto e la fame più nera. E io ero ridotto male,
malissimo. Le ferite, le cicatrici, le ossa che mi avevano
spezzato, non mi davano pace, gli incubi mi inseguivano. Tornai
di nuovo al nord, ritornai al sud. Stavo male fisicamente e
moralmente. Poi qualcuno mi aiutò: mi vestì, mi sfamò, mi portò
da un ospedale all'altro per diversi anni, impiegò diversi anni
per far sì che tornassi a essere uomo dopo tutto quello che
avevo subito; mi mantenne all'università, dove mi ero iscritto
alla Facoltà di Medicina, e, grazie a lui, presi la laurea il 14
novembre 1957. «Nel maggio 1959la Presidenza del Consiglio dei
Ministri mi informava che era stata assegnata la Medaglia d'oro
al valor militare al comandante "Fortunello" della Divisione
"Patria" e dei partigiani della Valle di Lanzo. Con decreto 2
giugno 1979, il Presidente della Repubblica, la Medaglia d'oro
al valor militare Sandro Pertini, mi concedeva la più alta
decorazione della Repubblica italiana, quella di Cavaliere di
gran croce. «Ho due specializzazioni, una in odontoiatria e
protesi dentaria e una in igiene». Oggi Luigi Briganti, sposato
con Francesca Policastro, laureata in Farmacia, ha tre figli:
Vito, di ventidue anni, laureando in medicina; Pietro, di
diciassette anni, che frequenta la quarta ragioneria e
Gabriella, di dieci anni, che ha appena iniziato le medie. Vive
a Lentini, dove è Ufficiale sanitario. Briganti però ha ancora
qualcosa da dire. Si dice che la notte dorma con la luce accesa
e che spesso gli incubi lo sveglino. Egli allora grida: «I
tedeschi, i tedeschi! Lasciatemi morire... ». «È vero, è vero»,
ci dice Briganti, «mi sveglio gridando. Provo la stessa paura,
gli stessi brividi di allora. Poi mi guardo attorno e trovo mia
moglie che mi conforta. Una volta si spaventava anche lei.
Purtroppo una vita non basta per dimenticare certi episodi che
ti sono penetrati nelle carni e che hanno lasciato delle
cicatrici dolorose e profonde. Per due volte sono stato dinanzi
al plotone di esecuzione tedesco e fascista. Sono uscito vivo
perché Dio mi ha aiutato. Ma la morte l'ho vista dinanzi agli
occhi, anzi posso dire che l'ho implorata, quando sono stato
bollato alle spalle con il ferro rovente a forma di croce
uncinata. Ho avuto il mento spezzato da un calcio, il setto
nasale rotto da un pugno, alcune vertebre cervicali rotte a
colpi di moschetto, le unghie dei piedi strappate con le pinze,
spilli nei genitali,
sigari accesi spenti sul mio viso...». Qui termina la storia del
partigiano "Fortunello": una storia drammatica, di sangue, di
dolore, ma anche di riscatto, simile a tante altre di giovani
che, come lui, hanno trascorso gli anni migliori della loro vita
in una guerra cattiva, con ideali veri e ideali falsi, inutili
per alcuni, scuola suprema per altri e che a tutti fecero
comprendere molte cose. Ed è proprio per questo che nell'anno
1983, Luigi Briganti, oggi medico professionista, che vive
nell'apparente benessere dell'epoca del consumismo, tornerebbe a
fare quello che ha fatto quando aveva vent'anni, e dice:
«Tornerei a fare le stesse cose di allora, se mi trovassi nella
stessa situazione. Difficilmente racconto ai miei figli, nati in
un periodo diverso, con una vita del tutto diversa da quella mia
di allora, la mia storia, la storia dei partigiani che morirono
e si batterono per la Liberazione. Non è facile capire. Bisogna
aver vissuto quei momenti, e io dico che chiunque si fosse
trovato, come mi trovai io e i miei compagni, a Boves, il giorno
dell'eccidio, avrebbe imbracciato le armi e combattuto. Quelle
case bruciate, due uomini arsi vivi, il puzzo della carne umana,
il terrore dei bambini e delle donne nella piazza del paese...
Chi non avrebbe reagito e non avrebbe provato rabbia dinanzi a
tanta violenza? «Non ho fatto nulla di speciale. Ho fatto solo
il mio dovere. Oggi cammino a testa alta; un tradimento, al
quale mai pensai, mi avrebbe ucciso più delle pallottole di un
plotone di esecuzione».
Motivazione della concessione della
Medaglia d'oro al valor militare: "Comandante di distaccamento
di una formazione partigiana, dà ripetute vivissime prove di
temerarietà e ardimento, incitando e trascinando i compagni
nelle azioni più rischiose. Nel corso di un'azione isolata
contro impianti militari delle truppe nazifasciste, compiuta a
Casale Monferrato, cade prigioniero in mano nemica. Sottoposto
alle più atroci torture nell'intento di ottenere da lui notizie
sulla organizzazione delle locali forze partigiane, rifiuta
sdegnosamente di fornire la benché minima informazione. Liberato
dai suoi compagni, quando già innanzi a lui era stato schierato
il plotone di esecuzione, nonostante che le profonde ferite
causategli dalle torture non fossero ancora rimarginate,
riprende il posto di combattimento con immutato slancio. Ancora
convalescente, evita - con atto di suprema generosità - la certa
cattura di un ufficiale delle formazioni garibaldine, cedendo a
questi il proprio nascondiglio e volontariamente costituendosi
alle truppe nazifasciste. Nuovamente sottoposto ad altre più
feroci e beffarde torture, dà, ancora una volta, esempio di
altissima fedeltà alla causa, opponendo ai barbari aguzzini il
suo eroico, doloroso silenzio. Liberato con lo scambio di
prigionieri, eppur costretto a camminare su occasionali
stampelle, trova tuttavia la forza di partecipare alle
operazioni militari svoltesi nelle giornate conclusive della
Liberazione. Esempio veramente luminoso di assoluta dedizione,
tenacia, e completo sprezzo della vita.
Valli di Lanzo, febbraio 1944 - Alto
Monferrato, aprile 1945". |
|
Filadelfo Aparo nasce a Lentini il
15 settembre 1935. Si era arruolato nel 1956 ed aveva prestato
servizio a Bari, Taranto, Nettuno e, da ultimo, alla Questura di
Palermo, Squadra Mobile, prima nella sezione antirapine e poi
alla catturandi. Per il suo coraggio e la dedizione al dovere
meritò numerosi premi e riconoscimenti. Venne assassinato in un
agguato di mafia, la mattina dell'11 gennaio 1979, a Palermo, in
piazza tenente Anelli n°25, con numerosi colpi di lupara. Il suo
assassinio si deve alla vendetta delle cosche che decisero
eliminare un "segugio" particolarmente efficiente e pericoloso.
Il sottufficiale era impegnato in delicate indagini mirate
all'individuazione degli organigrammi di cosche mafiose
palermitane. Entrato a far parte dell’esercito nel 1956, prestò
servizio presso le sedi di Bari, Taranto, Nettuno e alla
Questura di Palermo, dove operò inizialmente nella sezione
antirapina e qualche anno dopo nella squadra “Catturandi”, nella
quale divenne degno membro, grazie al suo straordinario
coraggio. Infatti, proprio per i valori in cui credeva e per la
passione e tenacia che metteva nel compiere semplicemente il suo
dovere, gli vennero assegnati numerosi premi e riconoscimenti,
tra cui, nel 1968, l’avanzamento di grado d’appuntato grazie
alla determinazione che mostrò all’interno di un’operazione che
si concluse con l’arresto di un rapinatore.
|
Ma non solo: nel 1978 ricevette un
altro importante apprezzamento, poiché era riuscito ad
individuare e bloccare, con decisiva e audace manovra, due
pericolosi latitanti all’interno della propria autovettura,
arrestandoli dopo un aggressivo scontro con i due. La felicità
del Vice Brigadiere e della sua famiglia, dopo i numerosi encomi
ricevuti, non fu destinata tuttavia a durare molto. Infatti, la
mattina dell’11 gennaio 1979, in una silenziosa, tormentata e
quasi isolata Palermo, alle ore 8:30 circa, Filadelfo Aparo 43
anni fu colpito da innumerevoli colpi di arma da fuoco (nello
specifico della «P 38» e di un fucile a canne mozze caricato a
pallettoni di lupara) proprio sotto casa, mentre salutava la
moglie affacciata al balcone. Il poliziotto non ebbe tempo di
difendersi con la pistola d’ordinanza, i colpi da parte dei
killer furono decisivi e lo fecero precipitare a terra,
spaventosamente sfregiato, sotto gli occhi increduli di un suo
vicino di casa, anch’esso ferito, non gravemente, il quale pochi
secondi prima aveva scambiato con lui qualche parola.
L'assassinio del brigadiere diede il via ad una massiccia
operazione di polizia. La città venne quasi stretta d'assedio
con una maglia di decine di posti di blocco e venne chiesto
anche l'impiego di elicotteri. Uno di questi velivoli rintracciò
l'auto usata dai killers per l'agguato: data alle fiamme ed
abbandonata nella borgata Pagliarelli, sulla strada per
Altofonte, un paesino della Conca d'Oro, attorno a Palermo. Pur
non escludendo alcuna pista, polizia e carabinieri decisamente
imboccarono la strada della « vendetta ». Il brigadiere Aparo
era diventato ormai, infatti, un investigatore troppo temuto
dalle gang dei rapinatori. Tutta la sua già lunga carriera —
sedici, ininterrotti anni, in uno dei servizi più delicati,
quale quello della prevenzione dei reati di rapina e degli
omicidi — era punteggiata di rilevanti successi. A tal punto,
che il suo lavoro e le operazioni che riusciva a portare a
termine, avevano dato vita a decine di aneddoti. Una volta
raccontano commossi alla Squadra Mobile, arrestò in un cinema
del centro un pericoloso ricercato che assisteva alla
proiezione. Si sedette accanto a lui e gli disse in un orecchio
“adesso non far baccano, così non se ne accorge nessuno”. E gli
fece scattare le manette che poi copri con l'impermeabile ed
uscì col suo uomo a braccetto. Come due vecchi amici. Ma al
cinema, Filadelfo Aparo non sceglieva i film polizieschi. Non
gli piacevano. “Quando sono costretto ad andarci lo faccio per
scovare i delinquenti in sala” era solito dire. “E' decisamente
una vendetta della mala” disse il capo della Mobile. Aparo
lascia moglie e tre figli, uno dei quali, a quel tempo, aveva
appena un anno. Nel 1998 è stata intitolata in sua memoria, dal
Comune di Lentini, una via cittadina. Inoltre In suo ricordo è
stato piantato un albero nel Giardino della memoria che ricorda
le vittime della mafia a Palermo. Il giardino è stato realizzato
in un appezzamento di terreno confiscato alla mafia. Per la
Polizia di Stato, Filadelfo Aparo resta «un punto di riferimento
per quanti, ogni giorno, con impegno e dedizione, sono al
servizio delle istituzioni e della collettività per la difesa
dei valori della legalità e della democrazia». Fonte:
www.isiciliani.it |
|
La corona di Federico II di Svevia,
simbolo del Sacro romano impero, forgiata in oro, pietre, perle
e smalti cloisonné, si trova al museo delle arti di Vienna.
Fu usata per incoronare gli
imperatori tedeschi del Sacro Romano Impero Germanico da Ottone
I fino a Francesco II, per oltre mille anni. Fra essi Federico
II di Svevia.
Probabilmente fu realizzata per
l’incoronazione di Ottone I nel 962 presso l’atelier di
oreficeria dell’abbazia benedettina a Reichenau in Germania, nella regione
del lago di Costanza, oppure a Milano. Attraverso un complesso
piano teologico la corona simboleggia anche il carattere
trascendente che era tipico della sovranità terrena durante il
Medioevo.La Gerusalemme celeste era
infatti immaginata con pianta ottagonale. I dodici grandi
gioielli nella parte frontale rappresentano i dodici apostoli,
corrispondenti alle dodici tribù di Israele nel vecchio
testamento. Le quattro placche smaltate illustrano, nella loro
iconografia, la liturgia dell’incoronazione. La fascia circolare
deriva dalle corone dell’impero romano bizantino d’Oriente, con
il quale c’era uno stretto rapporto all’epoca degli Ottoni.
L’arco della sommità allude ad analoghi archi ricoperti di
piume, sugli elmi dell’impero romano. A causa di questi
riferimenti nacque una corona dalla forma unica e
caratteristica, chiaramente distinta da ogni altra corona
occidentale. |
Federico II di Svevia
nacque il 26 dicembre 1194 a Jesi, nelle Marche, dall'imperatore
Enrico VI di Svevia e da Costanza d'Altavilla. Conosciuto con
l’appellativo stupor mundi (meraviglia o stupore del mondo)
Federico II era dotato di una personalità poliedrica e
affascinante che, fin dalla sua epoca, ha polarizzato
l'attenzione degli storici e del popolo, producendo anche una
lunga serie di miti e leggende popolari, nel bene e nel male.
Mentre Federico tentava di affermare la sua sovranità sul regno,
osteggiato da rivolte in Sicilia e Calabria, improvvisi sviluppi
nella politica imperiale gli presentarono ben più vaste
prospettive. L'imperatore Ottone IV, infatti, rivendicando
diritti sul Regno di Sicilia, discese in Italia. Con ciò provocò
la reazione di quanti ‒ il papa, il re di Francia e molti
principi tedeschi ‒ osteggiavano un'unione tra l'Impero e il
regno italiano. Federico fu il loro strumento e nel 1211
un'assemblea di principi tedeschi, deposto Ottone, decise di
invitare in Germania Federico per incoronarlo re dei Romani e
designarlo con ciò alla successione imperiale. Lasciata la
Germania, che abbandonò sostanzialmente al suo destino, Federico
si stabilì nel Regno di Sicilia, che egli si impegnò fortemente
a trasformare. Riformò i tribunali e l'amministrazione del
regno, riorganizzandone le strutture e creando nuove figure di
funzionari. Era una novità assoluta e in molti hanno visto in
lui il primo sovrano di stampo moderno.
Il 25 luglio 1215 venne incoronato
re dei Romani ad Aquisgrana, con la corona imperiale. La
sete di sapere spinse Federico II a ospitare presso la sua corte
importanti personalità della cultura, fra cui i lentinesi Jacopo
da Lentini (inventore del sonetto) e l’architetto Riccardo da
Lentini, che ideò le sue maggiori opere edili fra cui il
Castello Ursino di Catania e Castel del Monte, presso Bari,
dalla singolare pianta ottagonale, che per molti ricorda proprio
la sua corona imperiale.L'Imperatore morì mentre cercava di
reagire alle disfatte subite in Italia settentrionale. La fine
avvenne nel suo luogo di soggiorno preferito, Castel Fiorentino
presso Foggia, il 13 dicembre 1250. La salma successivamente fu
portata a Palermo e collocata in un sarcofago nella cattedrale.
|
-
-
-